Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 31 marzo 2010

Dialogo arcaico



- Adamo, dove sei?

- Non lo so: sono forse io il custode di mio fratello?

- Hai sbagliato versetto: tu non hai un fratello!

- Dunque sono io mio fratello: e nessuno è il mio custode, se non tu!

- Come scusa è molto fiacca. Se io sono il tuo custode, sono anche colui che freme per il tuo smarrimento.

- Se tu fremi per il mio smarrimento, perché non mi segui nel mio smarrimento?

- Se ti seguissi, non potrei custodirti. Tu mi cercherai dappertutto e mi troverai dappertutto; e io soffrirò con te, lontano da te.

- Perché lontano? Quale maledizione ti impedisce di accostarti alla mia colpa, di entrarci? Quale necessità mi impedisce di far cantare la tua parola nei miei gesti e nei miei passi?

- Nessuna maledizione, nessuna necessità.

- Ho dunque peccato per errore, per caso, per gioco?

- Tu lo dici.

- Ma dico il vero oppure no?

- Come puoi dire il vero, adesso? E chi può dire il vero, adesso?

- Come, Signore, Creatore, nemmeno tu?

- Lasciami un po’ solo, Adamo.

- Signore, dove sei?

- Ma non capisci? Nessuno potrà dire il vero, Adamo, nessuno potrà dire il vero...

- Signore, che sfacelo, che orrore!

- No, non capisci... È per questo che tutto è stato, che tutto è. Allontanati, la verità non si potrà dire, la verità si potrà solo fare.

- E come farò, come faremo?

- Allontanati, Adamo, io mi allontano. Ricordati di me e del giardino. Quando guarderai Eva, la sera, dopo la fatica e il pane, inizierai ad accumulare qualcosa, a patire qualcosa, inizierai a non potere; a non poter fare a meno. Ma ora va’, Adamo.

Odradek


Odradek è l’angoscia dell’impossibilità dell’assimilazione; e, ovviamente, anche dell’impossibilità dell’inassimilazione.

martedì 30 marzo 2010

Sorvegliare il punire


Verri e Beccaria, quando scrivevano i loro stupendi trattati digiuni di ideologia – anche se (è fatale) condizionati da uno Zeitgeist che si ritraeva insieme da bassura e profondità –, avevano davanti agli occhi i tratti di corda, gli stivaletti, le sedie con le punte di ferro, le pere d’angoscia, le tenaglie roventi, le veglie in posture bizzarre; e gli arrotati, gli impalati, i bisecati, i bruciati con camicie intrise di zolfo, i mazzolati, gli squartati (ancora risuonavano nell’aria le grida di Damiens, fatto a brandelli per aver graffiato il giustacuore del Beneamato). Fra l’elogio del boia di De Maistre e le difficili meditazioni degli illuministi milanesi non esito un istante nella scelta: ma anche i frutti più nutrienti dell’Aufklärung nascondono la magagna dell’impazienza, della volontà borghese di educare e redimere l’arcaico, l’arché. Le moderne idee sul diritto, e i sistemi penali che le incarnano, recano tracce quasi del tutto inconsce della nobile e tragica lotta che ha opposto il logos umano – con le sue invenzioni analogiche, le sue glosse a margine, la sua critica distruttiva piegata a recuperare la forma sfigurata dal tempo – alle intuizioni sacrali e profetiche sul delitto, il procedimento giudiziario, l’ascesi della pena, la maledizione. Come il nevrotico patisce oscuramente la moderna rimozione del rito, e ne costruisce simulacri privati e impenetrabili alla luce della piazza, così l’animale politico dei nostri tempi, frantumata un’unità che non poteva non contaminarsi di idolatria, si ritrova sempre al punto di partenza, ad Hammurabi, all’Imperatore Giallo, a Solone, alle Dodici Tavole, con la notevole aggravante di rifiutarsi di saperlo, di credersi benedetto dal lavoro di padri che non ama, o semplicemente – ed è il peggio – dalla mera illusione della distanza temporale: è questa la sua nevrosi politico-giuridica. Un Verri e un Beccaria dei nostri giorni non dovrebbero distillare pensiero dall’orrore e dalla pietà per gli inutilmente attanagliati, per i teatralmente smembrati; dovrebbero disincantarsi e disincantare dalla magia del sentimentalismo presuntuoso e superbo, dall’insensibilità di massa spacciata per mitezza, dai tanti guasti dell’illuminismo stesso degradato a ideologia. Dovrebbero mostrare che le pene post-moderne sono atroci perché anestetizzanti (per l’imputato, per il giudice, per le vittime, per tutti): dovrebbero, insomma (e sembra un ufficio più profetico che giuridico), riportarci nel deserto, additarci l’equilibrio oscillante tra Giudizio e Misericordia.

Pensiero del Cile


a Mariella

Non so, dev’essere un amore
più duro delle ossa dei profeti
che li costringe a maledire in faccia
i torturatori, come fanno, alla
seconda persona singolare e plurale
– ahi su di te, ahi su di voi – la persona
di Dio, della preghiera, del Regno.
Non so. Certo che un fuoco
con più aria e più fumo, che lasciasse
lievitare un po’ il corpo, non saprebbe
quasi accendere il dire, lambirebbe
il dire-nulla, o quasi, una salvezza
piccola e giusta del torturatore,
del suo non aver faccia e nome e corpo –
nemmeno forse potrebbe soffiarlo
via in pienezza di cuore
e di paura, soltanto un dire
molto povero, una parola che non
arda tutto, e subito: un parlare, solo,
che ci consoli, e protegga; un sostenere
quella divinità leggera e muta,
quella terza persona impersonale,
quel fremito di velo.

lunedì 29 marzo 2010

Ad cineres


tibi soli peccavi
solo per te
perché il tuo fuoco mi facesse cenere
perché dalla mia cenere
potessi mostrarmi a dito
le pleiadi le cerve il leviatano
perché ti restasse
una possibilità

hai mai visto
con occhi di peccatore
un metalloide calcinarsi al tardo
passo dei forni
un ciocco di larice resistere
al nero al rosso e poi cedere all’intimo
disfacimento
una carne d’uomo sfaldarsi
e inaridirsi e perdere spazio?

sei mai stato
il raggrinzirsi di seme
in un cuore opaco al mondo?

hai mai iniziato o finito la strada
dalla casa al porcile
e dal porcile alla casa
in ginocchio all’indietro
come in un gioco di bambini?

rendimi inutile e
perdonami
il poema può reggere
con un verso infelice

la tua luce non sa
vittorie

domenica 28 marzo 2010

Noche obscura


I.

gioia senza interiezioni
né intuizioni
senz’occhio di vitello e di neonato
senza pane di uomini e d’angeli
senza terra né cielo
che tanto a fondo innerva ogni cosa
da essere limpidamente-
fittamente invisibile
trasparente-petrosa


II.

secco di sterilità
secco di vuota attesa del fuoco
secco di norma e di follia
secco di ripetizioni
che convergono all’orizzonte
di un mare disseccato
secco il mondo e il suo messia

la lode sfolgora nel suo digiuno
le ginocchia spezzate nella supplica
fanno sprizzare il buio
si stagliano sull’orlo di quello che c’è
aridi novissimi


III.

mi vieti il tu
mi adeguo
l’io è di troppo
trabocca sempre dal bicchiere
e la terza persona non è terza
se non c’è uno che si dà da bere

non ho finito
finisco
immensamente

la verità nutre i suoi poveri
ma dà gusto ai derubati

sabato 27 marzo 2010

De officiis


Non: Tu devi, ma: tu non potrai fare altrimenti. Tu non ucciderai, perché nessuno muore per mano di qualcuno: tu non commetterai adulterio, perché nessuno può separare ciò che Dio ha unito, né insozzare ciò che Dio ha santificato; tu osserverai il sabato, tu onorerai il padre e la madre, tu amerai, perché non hai alternativa, ci sei già dentro, se il sabato ti avvolge tu lo osservi anche trascurandolo, se il padre e la madre ti hanno generato tu li onori per il fatto stesso di esistere al loro cospetto, se Dio esiste esisti nella sua luce e nella luce del volto del prossimo, qualunque cosa tu faccia. Riconoscere questa pre-libertà e pre-necessità (diventa necessità e libertà in relazione a noi) è volerla e amarla: il comandamento più grande, quello dell’amore, è formulato al perfetto, ahavta, come a dire: già ami, già hai amato. Perché allora è così decisivo il mio assenso, il mio riconoscere-volere-amare, il mio fare spazio, la mia testimonianza? Proprio per questo: perché, strettamente parlando, non ho scelta. Dovere è timorosa celebrazione di un patto che ho già firmato esistendo, non sforzo di conformità a un versetto che mai diventerò, che mai potrò incarnare.

venerdì 26 marzo 2010

A Italia


a Giovanni Casoli e Guido Ceronetti

Ho bisogno di gridare.
Tu fa’ eco al mio grido.
Sforzati, corrispondi,
bassa Italia, serva di Dio,
sorellina.

Tu non sei carne da incesti
ma fiammella di romitorio,
un lume di cuore al tramonto,
cantone di rifugiati, abitabile
fra un istante e l’altro, con dolcezza
sperduta, lisca
di lunga usura, vestita
– per gioco, tragicamente –
come a una festa di mendichi,
una spolpata lisca geroglifica
per intelletti tristi e decentissimi,
non petto o pane per mani fedeli.
Gli uomini, quando è l’ora, sanno amare
sotto l’unghia del tempo le volute
di sonno e orrore d’una incarnata
immagine. Ma è perdita tutto.
Gli uomini sono nati a contagiare
ogni visione. Serva di Dio,
bassa Italia, sorellina: non hai
né colpe, né perdono.

Ho bisogno di infrangere
e di elemosinare.
Tu seguimi, aprimi una nicchia
in qualche tua pietra, con molta
ombra, e il ricordo dell’acqua,
deserta Italia, figlia di Dio,
inesperta nutrice.

Tu non sai. Sei anche più piccola
del destino di chi ti volle domina
(e bagassa, e riposo, e cameriera).
Così – ti spiego – s’eccita il potere
quando gli scema l’occhio di capro
e disfandosi cerca di durare.
Ci vede male, crede di guardare
in alto, ingobbito, recubante.
Ma ti basta la tua fragilità
forse per compatire. Nata povera
non sai stare coi poveri, ma fiuti
la traccia misurata, la tua sorte,
il tuo dolore. Gli uomini ti servono
solo per macerarti, mia nutrice
acerba, seme di Dio, deserto
per ogni lito ed ogni balza, Italia.
Sei
un resto, un avanzo, una ventura.

Ho bisogno di morire
compiutamente – se i padri concedono:
fammi spazio. Se chiedono altrimenti,
desiderosi che il mio sangue ancora
scorra fra le radici, non negarmi
l’ostello del lebbroso, il banchetto
evangelico per cui fosti lasciata,
lisca Italia, creatura,
Italia bassa, donna per niente, solo
e sempre preghiera, povero resto
di lunga usura.

giovedì 25 marzo 2010

Tu quid dicis de te ipso?


A Nicodemo, R. Gamliel ed Elia Benamozegh

Fra lo sbandarsi della folla il vecchio parush si avvicinò lentamente, ma con qualcosa di ansioso e anelante nell’andatura, al giovane predicatore. Yeshua‛ il Nazareno stava seduto su una pietra bianchissima, poco fuori il cortile della sinagoga. Il suo volto, infuocato e quieto insieme, non tradiva, all’attento esame del parush, né la smorfia di gravità del dottore, né le stigmate inconfondibili del fanatico. Portava i capelli lunghi, come nazirei ed esseni erranti; aveva il taled sulle spalle, ma niente sul capo. La sua figura era magra, alta, violenta. Il vecchio si accostò non visto al suo volto e prese a dirgli, piano ma aspramente: “Perché riveli i segreti della Torah allo ‛am ha-aretz?[1] Non hai detto, tu stesso, che è come gettare pietre preziose a cani e maiali? Oppure ho sentito male? Fammi capire, figlio mio, perché vedo che non vuoi farti falso messia come tanti altri, i pazzi. Tu sei giusto e dotto. A quali santi piedi hai studiato?”.
Yeshua‛ guardava la terra, la polvere dello spiazzo. “Vecchio – rispose – quest’uomo non è solo un maestro. Puoi pensare che sia un pastore, ma non è solo un pastore, né solo un martire. Tu sei un vero israelita; quest’uomo è un vero uomo, come l’Uomo che uscì dalle mani del Nome puro e santo. Il Nome è padre mio, e padre di tutti i figli d’uomo; ma quest’uomo ha sentito, dalla bocca stessa del Nome, in un sussurro, che è la testa e il cuore della generazione e del mondo; che è il figlio del compiacimento, l’unico che possa fare ciò che ora va fatto, insegnare ciò che ora va insegnato, raccogliere ciò che ora va raccolto: perché il Nome santo ha bisogno del figlio dell’uomo per essere santificato. Ha egli il diritto di sottrarsi alla propria manifestazione, al proprio giogo? Come Yonah, sarebbe raggiunto in ogni caso dai giudizi del Nome. I maestri che ho seguito, fra i dottori del Sud,[2] mi hanno insegnato all’orecchio che l’Uomo e ogni uomo è figlio e cuore e fondamento; ma dal Padre stesso ho ascoltato che solo il figlio del compiacimento può davvero fare che la volontà sia fatta, e lasciare che il mondo sia giudicato dalla verità. Accada quel che il Nome solo crede. Il Figlio è più del messia”.
“Queste cose – obiettò immediatamente il parush – vanno dette e negate a un tempo, sono fuoco di Elohim! Attento, figlio mio, perché il vino della Torah è per il mondo che viene, e in questo mondo trabocca e distrugge gli otri e le gole, dà troppo dolore insieme con la gioia! I piccoli d’Israele vanno nutriti con latte e tenerume, non con lo stesso cibo dei pastori! Ma vedo bene ora – e qui stornò lo sguardo con compassione e disgusto – che tu sei troppo giovane, e troppo sai per sapere abbastanza! Tu non puoi credere d’esser profeta, certo; i profeti non portano in piazza le Dottrine Non Scritte, le applicano, ma piuttosto nella loro povera e potente mutezza che nel grido dei loro oracoli!”. Esitò prima di concludere con voce rotta: “Come puoi non capire che, se riveli il segreto sui tetti, se porgi il calice del vino ai piccoli, quelli si attaccheranno alla tua anima e al tuo corpo; e non come discepoli a un maestro, ma come tementi a un dio, e peccheranno d’idolatria al pari delle nazioni!”.
Mentre il parush sentiva le membra distendersi e raffreddarsi dopo il concitato rimprovero, il giovane predicatore della Galilea delle genti prese a dire come in un soffio, con una fermezza simile al puro silenzio: “Forse, vecchio, tu ami Eretz, la Terra, più della Torah predestinata a crescervi. Non so chi, fra me e te, allontani i piedi del messia. Il messia viene ora, fra me e te, se ce ne dimentichiamo davvero, e se ricordiamo senza incatenarci alla misericordia dei padri. Il corpo e l’anima sono un sacrificio; appartengono al mondo. Un sacrificio di pacificazione porta i piccoli in piazza. Il sacrificio di pacificazione mette in conto tutto, anche l’errore, anche l’impurità”.
Pareva adesso turbato dall’intimo squarcio, imprevisto. Neanche lui sentì se diceva le parole successive con ironia, oppure con rapidissima angoscia: “Dunque sono troppo giovane e sapiente?”.
Si alzò, mosse verso le porte della sinagoga per Minchah.[3] Lo seguì a distanza la bianca reliquia ebraica, l’esoterista, col capo oppresso dalla meditazione e dalla delicatezza, aggiustandosi rotondamente il taled, allacciandosi con cura principesca, e un tremito sempre nuovo, i lunghi tefillin.


Note:

[1] “Gente della terra”: sono gli ‘ignoranti’, coloro che non studiano la Torah. Forse viene di qui il kafkiano “uomo di campagna”.
[2] Secondo E. Benamozegh sono gli esseni (cfr Storia degli Esseni, Le Monnier, Firenze, 1865).
[3] Il servizio pomeridiano.

mercoledì 24 marzo 2010

Davanti a fotografie di volti e corpi devastati dalle armi durante le guerre


a tutti i feriti e i mutilati, chiedendo loro perdono

Blepo...
sarka ek psychês kremamenen...
[Vedo...la carne appesa all’anima...]
VALENTINO GNOSTICO

Un ferito è più
di un morto: non lo sapevo.
Chi è morto come una ruga di luce
benedice la morte, la dice bene,
la fa dicibile per chi muore,
per chi muore nel polso
del proprio desiderio,
per chi muore al proprio sguardo
in un volto di luce
difficile da portare, come un amore
alla fine dell’infanzia.

Ma guardare un ferito è riguardarlo
e non poterlo essere nemmeno
nella tenda del silenzio, nell’ogiva
radiante del pensiero: vedere un ferito,
il volto di un ferito riplasmato
da una scheggia che vola sapiente
dove deve volare, ricreato
in spelonche fantastiche, in ardite
forme di vegetazione
dimenticata, in disegni inauditi
dal breve giorno dell’Eden, e già attesi
e conosciuti e portati e inalati
e inseriti ed esplorati nel corpo
di Dio, tutto pensiero. Guardare
lo posso anch’io, come sono. Conoscere
è abbastanza, non ce la faccio.
La misura di un braccio mozzato
nel punto dove mai sospetteresti,
il limite e la forma di quel tronco
che ha viaggiato attraverso molti cieli,
balza per balza, tutto questo ora
lo guardo, ed è abbastanza
per un Dio ed un uomo.

Aspetto. Prego in un’immagine
mia follemente intera, secondo
la follia dello specchio.

Aspetto
in preghiera d’indegno la dignità
celeste di quel corpo, di quel volto
orientati al Messia
come il cavo dell’abside, rifatti
precisamente
dal cesello del Regno.

Un letterato della corte Ming legge il Vangelo


Quest’uomo ha veduto un buco, una falla
tra il cielo e la terra e, standovi eretto,
come una scolta, l’ha resa ancora più vuota. Mirabile!
Sono certo che è esistito, che ha operato, che è.
Ma che posso farci, se qui, nell’Impero,
le maglie della terra e del cielo sono larghe e cedevoli
eppure nulla c’è mai passato attraverso?

Il matto del villaggio sfiora la Via


Notte di meditazione. Niente va bene,
trepidano le cose quando la mente è umiliata,
questo vaso non disdegna quella luna.
Ombre, cose salde, chi può sapere abbastanza
se è l’ora del canto e il vino è in circolo
nella città del corpo, la gloriosa?
Notte, e ancora notte. Ditemi che cosa
c’è d’ordinario qui, o altrove. Lentezza,
luna, vaso, essere, e niente va come deve.

martedì 23 marzo 2010

Un funzionario dell’epoca T’ang


Un tè alla buona nel parco, accoccolato
come un barbone. Le cose
sono reali o illusorie? Lasciamo
che la domanda risuoni ancora un poco
con la sua sostanza stralunata,
– le domande più alte hanno bisogno
di questa sera oziosa.


+ + +

Quel cane non ha
natura di Buddha. È
così, come il Buddha, e pressappoco
come lo sciocco poeta di Zhou.


+ + +

Non si hanno notizie di te
da almeno due mesi. Ti ricordo
quando bevo, quando scribacchio qualcosa,
quando faccio le offerte agli antenati.
Devi essere vivo, ancora, perché stamattina
il vento meridionale ha turbato le felci.


+ + +

Che volete che sia,
l’amore! Da ragazzi scompigliamo la Via,
più tardi, confuciani deliziosi ed austeri,
rettifichiamo i nomi, e il fratello è un fratello,
l’albero un albero, la sposa una sposa.
Aspettiamo volentieri l’allegrezza senile,
quando coi bambini tireremo qualche calcio
alla palla, di nuovo, nel cortile.

Dialogo nella nursery



– Tesoro mio, stasera ti racconterò una storia. C’era una volta un essere di polvere e cenere che stava per convincere Dio a non distruggere una città...

– Come ‘stava per’? Non ci riuscì?

– No, ma fece risplendere la parola di Dio, fece parlare Dio di giustizia. Sai, tesoro, senza esseri di polvere e cenere che sappiano accogliere il fuoco di Dio, il fuoco dell’abbassamento di Dio, potremmo scambiare il nostro creatore per una tigre immensa, riposante nella sua splendida atavica ferocia. E questo non dobbiamo farlo, sai?

Timore e amore


Ho fiducia in quest’uomo – perché? Certo ho delle ragioni per farlo: ma le ragioni non arrivano a quest’uomo, non lo comprendono, non lo afferrano – altrimenti non potrei nemmeno avere fiducia in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti, nel suo corpo: sarei il suo dio, il suo creatore, non avrebbe senso una relazione con lui, un gioco di vita e di morte con lui. La mia incertezza su di lui non è disgiunta dalla mia certezza: ma di cosa, di chi sono certo? Non può che essere una certezza inanalizzabile, irriducibile a una formula, a un sillogismo, ma anche a una visione, a un’intuizione – non è la chiarezza superiore di uno sguardo totale, sintetico; è, come dire, la certezza di uno sguardo fallibile, che ha visto qualcosa, toccato qualcosa, e investe su quel qualcosa, senza scommettere a freddo, ma riconoscendo, caldamente, fragilmente, una comunione di ignoranze, una comunità. La comunità e la religione sarebbero fondate sulla paura e l’ignoranza, dicono gli illuministi di ogni epoca: non è del tutto falso. È la paura-timore che si stupisce, che trema per il tutto voluto, creato, sospeso, e l’ignoranza che, facendo spazio alla creazione, si mette dalla sua parte, crea insieme, lascia e vuole che si crei, che l’essere ci sia. La mia fiducia paurosa e ignorante è la pietra – dura e nascosta – su cui può fondarsi la comunità.

lunedì 22 marzo 2010

Un dono


a Mariella

Who is not poor, is monstruous...
G. CHAPMAN, Bussy d’Ambois

Muoiono – così è detto – le rose. Muoiono
i sufi e i Platoni. Muoiono
– parola estrema dell’Edda – in un tramonto
di sangue insostanziale (dei cieli
sul loro grembo ripiegamento) i soli
Viventi: gli dèi.

La tua bellezza e verità partecipa
alla ripetizione, dico, all’unico
destino ripetibile? Non so
se è del tuo volto la giovinezza
tranquilla e spaventosa
dell’immemore rosa che oso offrirti
– il fioraio l’ha avvolta
nel sudario di cellophane seriale
nello spento delirio dei nastrini
senza poterne sfregiare la facies –
o se il suo duro seme di memoria
che già un poco pareva
avanzare alla gloria
del cielo mortale, ti fa ancora,
ospite della terra, più giovane ancora
di sua morte perfetta, e così fragile
da vivere più in basso del destino,
o più dentro, nel cuore. Siamo poveri
oltre l’altezza e la larghezza del sole.

Pensieri di Abramo nella notte


Quando Dio ebbe parlato, Abramo pensò: “Ah, già”: quasi una risposta stanca e dura all’“Eccomi!” di pochi istanti prima. Non provò orrore, né sorpresa: o meglio, il suo orrore e la sua sorpresa erano limitati, misurati, e non avevano per oggetto l’ordine appena formulato, ma la sua contraddizione con la promessa della polvere della terra, la promessa della discendenza. Poi la sorpresa si spense come un lucignolo: tutti gli dei sono gelosi, tutti gli dei vogliono riavere indietro tutto, essere tutto, perché il mio dovrebbe fare differenza? Eppure, quella promessa... È stato pur sempre lui a farmela: se ho ascoltato la sua parola di stanotte, devo ascoltare, e riascoltare, anche quella del passato. Certo, certo, da lui m’è venuto l’impossibile primogenito, a lui ritornerà, in questo modo così impossibile, così comune. Quante volte ne ho sentito parlare... C’è persino chi l’ha fatto in piazza, alla luce del sole – ma io non sono un re, un condottiero, sono un poveraccio, chi l’avrebbe creduto che sarebbe capitato anche a me. E di notte, ma non in sogno: bocca a orecchio, però al buio. Ma sì, sì. E quella promessa, quella polvere della terra? Ma non capisci? Il miracolo, il riso ferito della mia sposa, tutto è stato per questo, perché il nomade sapesse rinunciare anche alla sua tenda, anche al pezzetto di terra feconda su cui poggia i piedi per qualche ora, per qualche notte. Già – chi sei tu, se non uno che ascolta voci – voci notturne, voci di veglia tenebrosa, di sogno lucido, senza onirocriti fuori dalla porta, senza auspici incisi sulla faccia delle cose, nei movimenti degli animali, degli astri, della storia. “Padre di molti” – Av ram, o tu che m’hai generato, dolce, piccolo, sensato fabbricatore di statue, com’eri più aperto e ordinato del tuo figliolo senza casa! Com’eri sapiente, com’eri ignorante, com’eri uomo. La mia integrità è uno squarcio nel petto, la mia astuzia un’operazione segreta, senza congedo, al servizio di un sovrano esiliato. Un sovrano che mi chiede tutto, banalità e miracolo, tenda e inquietudine, e che tutto mi promette, mi sciorina davanti, mi porge con la dolcezza di un fratello vinto da rimorsi, educato alla pace da lunghe sciagure. E io devo tenere insieme tutto, non posso permettermi altro. Oh, il nero fuoco dell’alba: manca poco. L’asino, la legna, i servi. Ah già, il coltello. E lui stesso provvederà ciò che serve per il mio, per il tuo sacrificio.

Humanitas in tempore inhumanitatis


Cinque minuti di otium: non abbastanza per spogliarmi della veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mettermi i panni reali e curiali; appena sufficienti, forse, per masticare qualche versetto, per assaporare qualche riga, qualche frase, qualche detto. O nemmeno per questo: ma di sicuro sufficienti per masticare, per ruminare, per far scendere in gola la città, per trasformare in pena e midollo la triste fatica del lavoro. Perché per riconoscere le fattezze di Adamo – che pure ci sono – in questo lavoro, in questa città, ci vuole una bella e cara ingenuità, oppure una scorta d’amore meditato e stagionato – fresco si corrompe in un paio d’ore –, una riserva di libertà e dolore da dissetarci e sfamarci la banda di poveri disgraziati che ha preso dimora nella mia anima.

domenica 21 marzo 2010

Fourth Dimension


Il mondo 4D è l’aion, la pienezza ideale, fresca, permanente della creazione (o dell’essere). È la sfera-uovo di Parmenide, di Empedocle, di Democrito, che è quindi utile immaginare come un’ipersfera, come l’essere-tempo di Dogen, come il continuum spaziotemporale di Einstein. La geometria e la matematica forniscono potenti analogie, anche se miti come quello platonico della caverna, pur essendo meno espliciti sulla necessità di rinnovare i sensi e ampliare la prospettiva in direzione dei realiora – e quindi lasciando più spazio all’illusione dell’idea come ens rationis, come realtà mentale –, danno il pathos genuino, rigoroso ed esatto dell’accesso liberante alle dimensioni superiori.
Un essere 4D si manifesta nel mondo 3D più o meno come nella metafora ingegnosa di Abbott: ma l’intuizione che davvero apre la prospettiva è la scoperta che il nostro mondo, la nostra Flatlandia o Spacelandia, è immersa nella dimensione superiore, avvolta da essa. L’alterità fra l’essere sovradimensionale e me fa ancora parte dell’ignoranza che limita sia la mia che, ad un livello superiore, la sua visione: l’ignoranza che accomuna uomini e dèi-angeli, e che le religioni di liberazione come il buddhismo (e l’esoterismo brahmanico, il Vedanta – ma anche le altre filosofie che si propongono la moksha) o monoteistiche – abramiche – trascendono additando un Omega, un infinito assoluto, un insieme di tutti gli insiemi, realtà al tempo stesso esperienziale e sovraesperienziale, cui l’uomo, copula mundi, essere posto alla giunzione fra le dimensioni, il più povero e il più glorioso, è chiamato in modo paradossale (soddisfazione del desiderio infantile, magico più profondo attraverso la sua umiliazione radicale, attraverso un capovolgimento che lo guarda in trasparenza, lo svuota e lo realizza).
L’essere 4D mi si rivela attraverso una successione temporale di sezioni 3D: il loro spessore quadridimensionale, che non posso percepire con i miei sensi ordinari, è uno spessore quindi temporale, la cui esperienza mi è accessibile attraverso la fede immaginale. La rivelazione dell’essere 4D è insomma il miracolo, la magia fiabesca che, come insegna Chesterton, deve essermi anzitutto la chiave di tutto ciò che è, del mondo così com’è. Il miracolo mi fa accedere alla struttura verace, profonda perché nascosta e nascosta perché troppo reale, troppo manifesta per i miei limiti cognitivi, del mio mondo 3D: mi fa accedere alla verità del suo essere immerso in altri mondi, in infinite altre dimensioni che – religiosamente – dovrebbero chiudersi (ma in un senso sovralogico e in parte anche sovranalogico) in un Tutto creato e quindi a sua volta immerso nell’Ω dell’Uno, o piuttosto emerso, staccato dalla Sua sovrinfinita (o infinita in senso fortissimo e proprio) pienezza.
Come dice Coulianu, se un essere 4D intersecasse il mio spazio (il mio mondo) 3D, l’esperienza e gli schemi mentali acquisiti mi indurrebbero a considerarlo un essere 3D imprevedibile e bizzarro, sfuggente e minaccioso, derisorio quasi. Forse la sua superiorità potrebbe apparirmi come una deficienza, una mostruosità. Ma se avessi sottoposto la totalità della mia vita percettiva, delle mie attività cognitive ad una scepsi, ad una continua contestazione del continuo, ad una sua incessante frantumazione nel discontinuo, potrei intuire – cogliendo la mia esperienza nella più ampia prospettiva della fede immaginale e razionale – che ogni fenomeno e tutti i fenomeni manifestano una totalità 4D unimolteplice, articolata e indivisa, una vita daimonica di cui il nostro mondo è la contrazione, il riflesso, ma anche – corbinianamente – il luogo epifanico (mazhar). La caverna platonica è luogo di prigionia e schiavitù, ma anche di iniziazione, a seconda della prospettiva in cui, dinamicamente, la si inserisce.
Insomma, vivere consapevolmente come in un sogno (vivere come se), vivere mettendo in questione, istante dopo istante, l’apparente necessità, la presunta concatenazione irreversibile dei fenomeni (vederla cioè in trasparenza come qualcosa di fatto, di voluto, di non-ottusamente-dato), è la chiave del mondo immaginale, di quella dimensione che è lecito chiamare quarta rispetto alle tre da noi ordinariamente conosciute e che, sempre in relazione alla tridimensionalità, si può considerare “fuori” dal (nostro) mondo, ma anche interna, intima ad esso. Come dice Dante, in Dio centro e circonferenza coincidono: ciò è possibile solo in uno spazio curvato su se stesso nel tempo, in uno spazio quadridimensionale (o sovradimensionale). Del resto, non insegnavano le Upanishad che l’infinitamente piccolo nascosto nel mio cuore coincide con l’infinitamente grande, con l’onniavvolgente realtà? Ma questa metafora si realizza solo educando sensi, immaginazione e intelletto a proiettarsi, con rigore geometrico-matematico e metafisico, al di là della supposta tridimensionalità della nostra esperienza.
Nella filosofia islamica medievale le regolarità del cosmo venivano chiamate “abitudini”: anzitutto abitudini cognitive, percettive del soggetto umano; perché in realtà il creato sorge e scompare ad ogni istante. Non sembra di sentire Hume – le cui geniali ma limitate intuizioni possono condurre a un empirismo aporetico oppure a recuperare la sapienza religiosa arcaica (persino quello sciamanica)?

L’anima e la forma come ‘corpi’ quadridimensionali: la vita nel nostro mondo è il moto interno di anima, il moto nel nostro mondo è la modalità della manifestazione del ‘corpo’-anima. Il tempo, secondo Platone, è l’immagine in movimento dell’aion.
Il corpo è ‘all’interno’ di anima, come strumento plasmato dalla sua volontà e dalla sua fantasia: come la visione di un essere 3D è fatta di quadri 2D, così la visione di un essere 4D è fatta di ‘corpi’ 3D. L’anima abbraccia e penetra il corpo, è l’aria onniavolgente-onnipenetrante.
L’infinito attuale cantoriano come simbolo matematico di un universo fondato sulla forma – ma su una forma non atomistica, cioè in opposizione aporetica al continuo, bensì sulla forma come misteriosamente compresente al continuo. Il transfinito è l’infinità propria del corpoanima, della materiaforma, l’infinità limitata (formata) in cui si realizzano tutti i paradossi della conoscenza intuitiva del mondo come unus mundus: panta en pasin, il cerchio dei XXIV filosofi, il nullibi-et-ubique, insomma l’unità-interdipendenza non nel senso del continuo materiale, dell’informità-illimitatezza, ma nel senso di un’onnipresenza-indivisibilità reale.
La quarta dimensione è l’anima, l’aion, la terza ipostasi neoplatonica, che a sua volta si compie nell’epistrophè al nous, dove l’unimolteplicità è realizzata. Corrisponde alla Binah cabbalistica, all’Uovo-Embrione delle cosmogonie. L’uovo è un ottimo simbolo dell’unus mundus: spaziotempo curvato su se stesso, dispiegamento raccolto, infinito limitato. Tutta la filosofia presocratica vi ritorna: la Palla di Parmenide, di Empedocle, di Democrito... Il suo rapporto con l’Uno plotiniano è misterioso: viene per lo più taciuto. Come se il sapiente egiziano avesse tentato di esprimere qualcosa di inesprimibile proprio perché fondante. Eppure ‘ciò’ a cui si accede tramite l’estasi non può che essere il turiya vedantico, il quarto stato superiore alla prajna del nous, l’Uno-Zero, ‘ciò’ a cui appunto si volge l’eterna contemplazione del nous.

sabato 20 marzo 2010

Coccio


E si prese un coccio per grattarcisi
mentre sedeva in mezzo alla polvere

Giobbe 2,8


se il poeta non bisbiglia al lume
dei santi e dei cani, sappilo, il poeta
è un tiranno, puoi
esserne certo, è un idolatra, è un
povero mostro, il poeta,
se non bisbiglia al lume dei santi
se disprezza la lampada dei cani
per lui meglio sarebbe stato
(per il tiranno) non
essere nato

Quid sunt regna


Quando leggo i versi stupendi di Orazio, con le loro inarrivabili sprezzature, sento che è questo che ci fanno gli imperi: creano malinconia e saggezza nei meandri del loro cuore e, ai loro margini taglienti, la fame di apocalisse e di salvezza. Come sono eternamente avvinti l’Epicuri de grege porcum e l’Eltheto charis kai pareltheto ho kosmos outos! Gemelli inquieti, in cerca dell’unica pace. Ma la croce resta sempre in mezzo, nel vivo della loro stretta-abbraccio, ed anche sempre fuori.

Padre e figlio


- Papà, raccontami la storia del mondo in trenta secondi!
- Non cercare con lo sguardo orizzonti sterminati: in ogni passo del tempo c’è tutto il cammino. Vedi, quando mi hai chiesto di raccontarti la storia, tutta la storia, mi sono sentito infastidito, irritato: Ma che vuole, adesso? E anche a provarci, come sarebbe possibile? Così i fratelli hanno iniziato a spartirsi l’unica vita, a litigare, a uccidersi. Poi mi sono voltato, ti ho guardato: Eccolo! Come posso disobbedire al mio bambino? Così ci ha raggiunti, e ci raggiunge anche oggi, vuoti e in attesa, la salvezza. E ora che ti ho raccontato che cosa mi è accaduto – guarda, sono finiti i nostri trenta secondi!

venerdì 19 marzo 2010

Nota su Shaul il Piccolo di Tarsus


Forse Paolo non si considerava tanto un ektroma (1Cor 15,8), un aborto, un nato morto, quanto un mamtzer, frutto di una relazione illegale, uno che è dentro e fuori la comunità: e quindi, secondo la Legge, ha cercato di sposarsi con una goyah, il Gentilesimo stesso, affinché i suoi figli fossero liberi dall’interdetto, fossero cioè veri ebrei (vedi la Halakhah). Ma perché questo sentimento? Seguendo la metafora – quasi la cenere calda di una vergogna giovanile passata attraverso il fuoco – nel suo concepimento/metanoia, nella sua nascita come “cristiano”, ci sarebbe stato qualcosa di adulterino o incestuoso: forse ha vissuto così la sua teshuvah?

Lettera demonologica sull’amore


Ritorniamo – ritorniamo sempre – all’amore, mio caro. Cos’era irrevocabilmente morto, irreversibilmente perduto in me, per me? Non la capacità di amour fou in senso stretto, credo, né, spero, di mania nel buon senso greco. Sicuramente si celebravano davanti agli occhi della mia anima le fastose esequie di un certo tipo d’amore – l’amore ‘romantico’ nella sua incarnazione più suggestiva, più banale, più truffaldina. (Nota le virgolette: ci sono molti tipi di amore romantico – pensato, sentito, vissuto, spacciato). Cerco di spiegarmi. Esiste l’eterno amore idolatrico che l’uomo concepisce per una donna, o viceversa, la passione lucente e funesta: come ogni cosa divino-daimonica, ce ne guarisce solo un amore più vasto – sempre che si tratti di una guarigione. C’è poi l’amore nuziale, palestra sacra e sapienziale, rito dharmico alla giunzione fra solitudine e comunità, fra privato e pubblico. Ma all’ombra di entrambi si acquatta lo spettro banale, l’amore più apparentemente corrisposto e meno sostanzialmente amabile: quello che nei romanzi di formazione è l’esca della ‘società’ (piuttosto che, schopenhauerianamente, della Natura), o meglio della conformità al secolo, al mondo. Ovviamente, la vita è fatta anche di questo – e amore è un nome che traveste fin troppe passioni, apatie o apatheiai (nel senso dei Padri della Chiesa: libertà interiore da attaccamenti e avversioni). Ecco, il demone che mi aveva fatto l’incantesimo era un demoniuccio spurio: mezzo amour-passion, mezzo amore della pace carnale, della pace falsa, della ‘normalità’. Quest’essere chimerico era un vero e proprio truffatore: mi propinava, sotto le specie di slanci del cuore umani e divini, la merce più scadente che ci sia – l’astratta fiducia nell’uomo, la fede nell’affidabilità di un essere di carne, che spesso si camuffa nell’ansiosa, paranoica autarchia della Coppia (due cuori e una capanna, e fuori il mondo cattivo). Bene, mi resi conto – patendo alla meno peggio – che l’amore è sempre pericoloso, delicato, sfuggente, ma questo amore, questo ‘amore romantico’ che vedo moltiplicato in mille specchi intorno a me, è una trappola per lepri lunari. Sotto le nostre amorose finzioni di assoluto, si cela non di rado la faccia stupida del mondo (non in senso pitagorico-hillmaniano!). Ma anche quell’idolo va spezzato e bevuto, rispettato (guardato di nuovo, testimoniato) e confutato, salutato e congedato. Almeno così l’ho vissuta io: o meglio, almeno così ne vivo il ricordo, raccontandomelo – e raccontandolo a te.

Daniele

giovedì 18 marzo 2010

Frammento di una lettera su Pasolini


Ti ho scritto che i profeti “sbagliano infallibilmente”, me ne chiedi la ragione. Non la conosco, ma vedo che è così. Provo ad avanzare una congettura. Il profeta è legato – molto più radicalmente, visceralmente e consapevolmente del sapiente – ad una comunità particolare, con cui si identifica; e vede quella comunità, la sua comunità, come “giudicata”, cioè stretta dal nodo di una necessità misteriosa, una necessità con cui il profeta lotta per costringerla a parlare, a sciogliersi in parola. È così che attinge l’universalità della sua missione e del suo messaggio: il nodo che strangola la comunità – e anzi il profeta, perché in genere la comunità, il noi della comunità, si sente il collo libero, liberissimo, mangia beve e fornica con la pazza levità di sempre – si scioglie in una parola di luce, di misericordia, che ha validità eterna, di presente eterno, di redenzione. Ma il vincolo di destino col particolare è ciò che fa, insieme, la verità e l’errore della profezia: è la ri-velazione nel senso ambivalente di cui abbiamo parlato diverse volte. Ci sono mille esempi di come lo sguardo del profeta si recluda nella prospettiva, nei limiti della sua comunità e del suo tempo. Leggi la Bibbia: chi sono quegli “egiziani”, quei “filistei”, quei “caldei”, quelle “genti”, quegli “empi”? Se prendi i Salmi, non si può negare che abbiano una vocazione, a volte diretta a volte ironica, all’universalità: con essi hanno pregato i rabbini di Yavne, Gesù, Evagrio, i cabbalisti, gli anacoreti, i cenobiti, i quietisti, i crociati, i ciabattini... Eppure, come sono inchiodati a un hic et nunc per noi irrecuperabile! Un hic et nunc che, prima di alludere anagogicamente al nunc stans dell’eterno, è stato contingenza storica a volte aspra e rognosa. E se penso ai Padri della Chiesa – chi sono quei “pagani”? Di chi stanno parlando? Agostino nel De civitate Dei dice che le virtù dei pagani sono splendida vitia: cosa c’è di più ingiusto? Anche se, colta nella luce apocalittica dell’evento-Gesù, quella affermazione è spiritualmente decisiva, trasformante, rivoluzionaria, mobilita l’anima di chi la ascolta. Potremmo continuare per ore.

Ad un amico, su Stagflacija ovvero la stagflazione


Caro * * *,

come ti dicevo, non posso pretendere di dare di Stagflacija una lettura economica nel senso specialistico, astratto, scientifico, teologico: posso giusto raccogliere un paio d’idee alla buona, ricordando sempre l’accezione più profetica, paolina, del termine ‘economia’ – amministrazione divina del tempo umano.
L’inflazione (parte inferiore del corpo chimerico e mostruoso di Stagflacija) è una malattia cronica dell’economia e della psicologia contemporanee: diretto il suo nesso con la magia specifica di questi due secoli, la creazione di bisogni attraverso la capillare, saturante ‘propaganda’ pubblicitaria.
La stagnazione (parte superiore della dea-orchessa, che ne comprende quindi l’orribile e forse inguardabile volto) è la morte (apparente?) del peculiarmente umano, dell’autonomia – il darsi leggi – e dell’autopraghia – il fare le cose da sé –, insomma della creatività politico-culturale in tutti i sensi a noi finora noti.
Agli inizi del ‘900, Chesterton e Belloc individuavano giustamente la nascita dello “Stato servile” (come per ogni profezia, le date sono controverse, ma non importa): fondato sull’ideologia implacabile del lavoro, implica una partecipazione ormai puramente illusoria alla vita politica; le deleghe e le alienazioni che la macchina dello Stato borghese, postnapoleonico, imponeva e induceva si fanno sempre più sistematiche, radicali, globali, quasi tutto il dominio della libera azione umana è espropriato e gestito da molteplici caste di “esperti” (è uno dei temi di Illich e, in un senso più ampio e apocalittico, di Foucault).
In un’epoca come la nostra, in cui la magia è diffusa, policentrica, impersonale e quindi tanto più mistificante, affatturante, vincolante – urge un recupero rinnovato, attentamente, lucidamente, spietatamente rinnovato, del pensiero magico. Davanti ad una sedia dell’IKEA non si possono ripetere pedissequamente, alla lettera, le meditazioni di un uomo del passato davanti a uno sgabello di legno o una sedia di vimini foggiati con lavoro paziente da un artigiano: oggi è opportuno sentire/immaginare gli dèi di Jung e Hillman all’opera nel tessuto del mondo, ma è forse più impellente e quasi preliminare fiutare e considerare l’elemento titanico sparso in ogni cosa (l’aveva ben capito, col suo occhio del cuore spalancato sugli archetipi, Hölderlin). Contro la barbarie razionalizzata dei Titani non basta la repressione geniale e attiva di Zeus, occorre la vittimizzazione rivoluzionaria di Dioniso/Zagreo. Si parla sempre di “ripartire dal basso” (nella cultura, nella formazione della società, nell’azione politica): bene, in realtà si riparte sempre dal bassissimo, dall’infimo. Exaltavit humiles. Cenerentola, l’anima asservita dalla matrigna, deve ricordare pietosamente i morti e aprirsi all’umile magia delle fate. Oggi ci vogliono dolore e azione sottile, rivoluzione nel contesto minimo: così si combinano, contro la malattia della massificazione consumistica, la cura allopatica e quella omeopatica.
Come restituire, oggi, la moneta al Cesare, all’idolo Stagflacija? Se è vero che, secondo il suggerimento di Gesù, dobbiamo restituirgli ciò che è suo, “il nome e l’iscrizione” (applicato alle invenzioni del mercato, potremmo dire forse il logo e l’imposizione pubblicitaria di bisogni), cosa rimane da “restituire” a Dio se non la materia della moneta – l’unica cosa da Lui creata, il sostegno invisibile, umile, apparentemente passivo?
Quindi ripartiamo dal bassissimo, dalla materia! Ma non può essere uno slogan. Stagflacija ci offre forse un’occasione unica per vedere in trasparenza l’idolo supremo degli ultimi centocinquant’anni, l’economicismo totalitario, il paneconomicismo condiviso da quasi tutti gli attori del conflitto sociale e politico. Restituire la moneta – che possa insegnarcelo l’inflazione stagnante, la stagnazione inflata?
Secondo me, siamo già con un piede al di là dello Stato servile. Ormai siamo fuori dal corpo dei varna di Manu: la forma umana non è più, se non in parte, quella dello shudra – ma quella del fuoricasta, del candala. Il candala è l’immagine speculare del liberato in vita: non ha un posto nel mondo, non schifa nessun cibo, nessuna veste, nessun tetto, la sua vita è un continuo inferno, un continuo giudizio universale (nelle immagini dello Yoga-Vasishtha). Ma questo vuoto di varna, di tradizione, può forse essere (secondo la migliore... tradizione apocalittica) una transizione caotica a un nuovo kosmos, a un nuovo bereshit. Questo però il candala, in quanto candala, non può saperlo.
Certo, Stagflacija mi spaventa. La precarizzazione del lavoro non sembra preludere, come nella prima metà dell’Ottocento, ad una – seppur fragile ed esposta a manipolazioni ideologiche – presa di coscienza di classe, alla nascita di un orgoglio del lavoro. L’operaio poteva vedersi in una luce eroica e comunitaria insieme: ascetico, forte, preciso, solidale, affamato di giustizia. Ma l’operatore di call-center? Il flessibile del terziario? Oltre al malcontento diffuso e indistinto – che in genere è presagio e materia prima di fermenti fascistoidi – quale forma ci è dato intravedere? E nessuno che metta in dubbio, nemmeno con infantilismo luddista (anzi qualcuno c’è, ma sono quattro gatti anarcoidi o presi in ostaggio da residui ideologici del tutto sterili, inutilizzabili), l’idolatria del Lavoro e del Consumo, coppia divina maledetta, dietro alla quale non c’è nessun iperconsapevole Grande Fratello, singolo o élite, perché l’ananke che ci domina è senza volto. Se c’è un piano dietro, è dietro tutti quanti. Di sicuro c’è la volontà – ma il volente è ignoto – di avvicinare allo zero gli spazi di quiete, di senso (in entrambi i sensi!), di felicità povera, di umano e di divino. “L’uomo è antiquato”, diceva Günther Anders: propongo questo suo titolo come motto araldico del Novecento.
Quando i temi dell’ecologia passeranno nel fuoco purgatoriale e perderanno i loro limiti attuali – ideologia vecchia e astratta, privilegio dei borghesi un tempo unici attori della distruzione del mondo, sentimentalismo, soggezione al pensiero dominante economicista – la materia della moneta sarà occasione di salute. Più che il politeismo intelligente e sensuoso di Hillman o quello imbambolato della Wicca e della New Age, intravedo una riscoperta del Magico – forse anche attraverso la rete, magicissima, di Internet – e magari, almeno nel pensiero occidentale, del suo fratello minore e gran nemico, il Profetico. Se così fosse, Stagflacija potrebbe essere incenerita nel fuoco e bevuta con l’acqua – come il Vitello d’oro.

Ti abbraccio,

Daniele

mercoledì 17 marzo 2010

Ai margini/3


Forse troverei requie, o sollievo, in una religione che mi insegnasse a vedere e amare il mondo, il cosmo, il creato, come suo sacerdote e suo paria, senza umanesimi tiepidi o profetici.

Ai margini/2


Il cacciatore Gracco, la storia dell’uomo che non poteva morire, è l’unica pagina della letteratura sacra ch’io riesca a capire. Forse è questo il problema, che riesco a capirla. Ma non è Scrittura, è un midrash, un commento umano ispirato, anche se è tutto trasparente al libro di Dio, e sta ai suoi margini sin dal principio. Il Testo Sacro ha una durezza, una ruvidezza, una scabrosità destinata a trafiggere, a crocifiggere chi lo accosti come verrebbe spontaneo fare – prendendolo sulle spalle. E un midrash come quello di Franz allontana e porge la croce: se l’interprete è stato realmente crocifisso, attraversato dal versetto del libro, può svolgere per noi questo ambiguo ufficio angelico. L’uomo che non può morire, il cacciatore di verità fluttuante nel tempo intermedio, apparentemente illimitato, dell’attesa della verità, è l’uomo che non può convertirsi nel senso proprio, ordinario e forte, del termine: non l’uomo che non sa metanoia, che non si trasforma, perché il suo destino di mediazione tutta offerta e tutta impossibile, irreperibile, è anzi una continua metanoia e trasformazione; ma lo sradicato dalla vita e dalla morte che non ha nemmeno la possibilità di indugiare, di accamparsi, zingaro, nel suo sradicamento: lo sradicato che Dio non fa respirare, come Giobbe, perché deve testimoniare con la propria condizione la condizione di molti, forse di tutti, e non ha altro che la dolcezza quasi diabolica di chi acconsente a non acconsentire, luce di sorriso davvero fuori dal mondo, fuori da tutto, luce di maledizione che è divinamente costretta a non essere peccato, a non riposarsi nel peccato.

Ai margini/1


Sento che, in quanto uomo, il mio posto nel creato, il posto giusto che devo occupare nell’affresco, nel poema del creato, è il margine; che, in quanto uomo, sono emarginato nell’universo – come, nella società, gli effeminati, i lebbrosi, i deformi. Emarginato, non espunto. L’uomo non compare nel violentissimo-dolcissimo poema che Dio scaglia su Giobbe dal turbine: ma l’Uomo è lì, come ascoltatore umiliato, come spettatore annientato, come perpetuo penitente, glorioso-maledetto, gravissimo-lievissimo esiliato.

martedì 16 marzo 2010

Un fidanzato rilegge


a Saint-Exupéry, a W. C. Williams, a Chesterton, ai sufi, a noi

I. UN FIDANZATO RILEGGE
LA METAPHYSIK DER GESCHLECHTSLIEBE

Aveva ragione Schopenhauer,
l’amore è una truffa, ma il truffatore
non è la natura, è Dio. Guardatevi
dalle mie astuzie, ha detto ai credenti,
guardatele, portatele sul capo
come la corona dei folli. Prendete rifugio
da me in me. Eppure non basta,
perché l’amore fra un uomo e una donna
è la bellezza: un corpo consapevole
del canto. Ignoriamo se valga la pena,
perché l’adamo era e resta uno sciocco,
ma certo c’è qualcosa di più santo
della certezza, qualcosa che attende
e che è, nelle pieghe di carne
di qualunque malcerto matrimonio.
Dunque Schopenhauer aveva ragione, però
– mi dispiace – non era ragionevole.



II. UN FIDANZATO RILEGGE
LE PETIT PRINCE

Amare forse viene da adamare,
portare in casa, nella domus, dunque
addomesticare. Parla ancora,
rosso briccone, dimmi qualcos’altro.
Aggiungi che l’amore corrisposto
è un lancio di dadi in una bisca
orientata a Gerusalemme,
che l’amore nuziale è una puntata
memorabile, un rilancio, azzardato
curvandosi sul tavolo del vino
a due passi dall’iconostasi
a un metro dalla luce. Sei davvero
buffa, mia volpicina. Tu vuoi piangere
per guadagnare il colore del grano
e meritare l’astuzia del vino.
Sempre ci si addomestica due a due,
arruolati nel fumo, sequestrati
fra ardenti colloqui, noi adami,
sempre l’un l’altro ci addomestichiamo
entrando, il capo chino, in luoghi assai
poco rispettabili, sedendoci in pace
a una mensa che mangia i commensali.



III. UN FIDANZATO RILEGGE
IL LIBRO DELLA NATURA

Dicono che i colombi
siano monogami. Dei serpenti non so,
mi basta che anche loro
facciano uova. Il leone ha il serraglio,
il vitello è vergine: forse per questo
saranno, in quel giorno, inseparabili.
Il mondo dice quello che ha da dire.
Ospite dei tramonti e del corpo, temo
che solo la monogamia possa fare di adamo
un fratello, com’era, delle bestie,
all’altezza dei loro pericoli,
dei loro tremiti. Solo le nozze,
io temo, ci rendono il Giardino.

Se non ti avessi vista, dolcemente
austera, giocosa gallina,
mai avrei sospettato che per fare
festa nella vita, per vivere a festa,
è opportuno forzarsi ad aver l’aria
del giorno festivo, la mattina.


NOTE:
“Guardatevi/ dalle mie astuzie”: secondo una tradizione islamica, quando Iblīs (il Diavolo) fu maledetto, gli arcangeli Jibrīl e Mīkā’il si misero a piangere. Allāh chiese loro: “Perché piangete?”. E gli arcangeli: “Signore, temiamo le Tue insidie”. Allāh assentì: “Avete ragione. Non credetevi mai al riparo dalle Mie insidie”. Ma un famoso hadīth recita: “Io prendo rifugio in Te da Te”.

L’etimologia amare-adamare è stata effettivamente proposta da alcuni studiosi.

La terra vista dalla luna


Sono un’anima che attende di incarnarsi. Ho attraversato le sfere celesti in discesa, ho tagliato la cruda e brulicante atmosfera sublunare, ora sto planando sulla terra, quasi posso accarezzarla. Vorrei studiare tutti gli uomini, imparare da tutti, invidiare tutti, sorprendermi e inorridire davanti a tutti: ma non ho molto tempo, e uno sguardo disincarnato inganna. Il mondo è anche uno spettacolo, certo, ma non solo: e cos’altro, dunque? Non posso ancora immaginarlo. Suppongo un gioco, con un numero severamente limitato di regole e una ricchezza ubriacante di possibilità, ma forse anche questo è un inganno: un gioco è sempre qualcosa di piccolo e mortale, così almeno si mormora – fremendo – nelle riunioni serali dei disincarnati.

lunedì 15 marzo 2010

Appunti apocalittici del 2000/4


La brevissima haggadah evangelica del Regno e del lievito è ambigua e sottile. Il lievito (hametz) simboleggia l’insegnamento, la dottrina, ma anche il profano, contrapposto alla santità della matzah, l’azzima che è simbolo di umiltà, di conformità alla volontà divina: esotericamente è il fermento alchemico del mondo, che mortifica e ravviva, mescola e purifica. Il Regno è presentato come un fermento che gonfia la pasta del mondo facendolo, in un certo senso, sempre più secolare e sempre più terrestre; ma questa indicazione è anche una profezia sull’anti-Regno, l’anticristicità del Regno-Chiesa, mondo sacralizzato dal lievito, da un rinnovamento fatto attraverso qualcosa di vecchio. Il lievito è pasta vecchia: anche qui brilla l’ambiguità, il ritorno all’archè e l’asciutta contemplazione qoheletica; il ritorno dell’antico separato, fatto invecchiare nella separazione, che aumenta il volume della pasta mondana, è tra l’altro una profezia sulla genesi, sul senso e sul destino di ogni impero, nonché di ogni diffusione, forse di ogni tradizione.
Anche l’idea di crescita, che ha così sedotto la mente cristiana fino alla necessaria secolarizzazione, in quanto idea apocalittica ha il suo risvolto orribile, canceroso, il gonfiarsi di una pagnotta profana che non è il pane pasquale (figura dell’Ostia), che non si sa bene da chi sarà mangiato e che sospettiamo essere un pane dell’attesa, simbolo del tempo intermedio: il farsi del Regno come mixis sempre più estesa e inestricabile, al modo del pane lievitato, egizio, che ha a che fare con il commercio fra vita e morte, fra tempo e resurrezione. Il segno della resurrezione di Cristo, in quanto segno, è pur sempre lievito, paganesimo, compensazione.

Noi completiamo le sofferenze che Gesù non ha patito nella carne: quella coniugale, quella del pentimento etc. Egli completa, nella pienezza del suo sacrificio, l’insufficienza delle nostre.
Così egli dà alle nostre l’universalità attraverso la partecipazione, noi diamo alla sua le nostre particolarità attraverso l’oscillazione della scelta.
L’albero della vita e l’albero della conoscenza si avviano in tal modo a riconciliarsi in infinitum.

Appunti apocalittici del 2000/3


Sublime detto dell’imām ‛Alī: L’alchimia è sorella della profezia. La profezia è annuncio della resurrezione, l’alchimia è la scienza-disciplina esoterica della trasmutazione. Gesù è la pietra filosofale, meta dell’Arte (presenza, pienezza), ma sempre di nuovo pratica e attesa, primizia. Gesù è messia e profeta, lapis philosophicus e opus, colui che dà inizio al Regno (alla sua manifestazione) occultandosi nella vita spirituale e carnale di tutti e tutto.

Il vecchio hassid dice allo tzaddiq: “Ora che siamo parenti posso confessartelo: alla mia età non ho ancora fatto teshuvah, non mi sono ancora convertito!”. Il santo gli risponde: “Smettila di pensare a te stesso e occupati dell’universo!”. Questo va detto ai cristiani, oggi più che mai, l’ora viene ed è adesso: l’aborto, gli embrioni, il divorzio... mentre i mattatoi, gli allevamenti stessi officiano sempre più nudamente il rito imperiale della Techne, in cui l’unica res cogitans sta di fronte a pezzi di extensio indefinitamente sfruttabili e consumabili; le piante sono schiavi senza neanche un rigo nei codici delle nostre anime: gli elementi vengono torturati quotidianamente senza requie...

Il cristianesimo oggi estende – quindi esprime – al massimo, entro i confini dell’umano, la sua idea di personalità, come l’editto di Caracalla estendeva la cittadinanza ai liberi dell’Impero. Ma finché un dio non assume la forma servi e non dà lingua e simbolo di salvezza a ciò che è davvero schiavo oggi, la Redenzione – e la “fine” dello stato attuale delle cose – è lontana.

Appunti apocalittici del 2000/2


Gesù ha dato una archè profetica al gentilesimo, lo ha capovolto per rimetterlo in piedi. L’ambiguità resterà dunque fino alla consumazione dei tempi – Roma convertita, Roma svuotata, Roma sopravvissuta a se stessa, Roma anticristica. Il vincolo tra Roma e Israele è divenuto perpetuo, e la Grecia ha dato gli strumenti – provvisori, o meglio necessariamente insufficienti – per pensarlo (si torna sempre alla lettura allegorica di Agostino nella Doctrina Christiana: mitologia e filosofia del paganesimo come gli abiti e gli oggetti d’oro e argento trafugati dall’Egitto durante l’esodo). Il greco delle scritture cristiane non è lingua sacra, ma è essenziale all’euanghelion, all’annuncio di Gesù. Non è lecito, se non con grande prudenza e senso del limite e persino d’impotenza, cercare con sguardo avido un Urtext semitico, aramaico-ebraico. Anzi, è già tortuoso accostarsi alla ‘fonte’ pretendendo di scavalcare all’indietro la tradizione cristiana, cattolica ortodossa e protestante: com’è antiebraico e antiprofetico, nonostante sembri il contrario!

“Niente ti ostacoli sulla via a Dio”: cioè niente ti sia oggetto, obiectum, proiezione. Ciò che usi, ti è d’ostacolo (l’immagine si fa idolo): ciò che lasci essere, ciò che lasci vivere liberamente, e ricevi-patisci, ti libera e vivifica (l’immagine si fa icona).

Appunti apocalittici del 2000/1


L’unicità di Gesù non è lo squarcio del Velario del Tempio (la Paroket), l’atto dello squarciare, ma il Velario stesso squarciato. È il velo, la mediazione, è scrittura di carne. È segno di primo grado, dunque messianico, perché – come il dono della Torah – vincola in modo definitivo, incondizionato.

Anche se non voleva esserlo, Gesù è il messia dei gentili, or goyim.

L’infedeltà del figlio adottivo, del cristiano, è partecipazione alla croce del Figlio naturale, il Cristo, e più oscura condivisione della sofferenza del padre Israele.

sabato 13 marzo 2010

Dai verbali di una sezione sconosciuta


Compagni, oggi nel mondo c’è poco dolore, poca tristezza, secondo me anche non c’è neanche molta disperazione. È come una barbarie effusa, circolante, senza cariche di cavalli, senza zigomi strani da imparare a decifrare con paura e riverenza. Come tramare una guerra civile in un luogo che non è più un luogo? Chi può anche solo pensare a una rivoluzione, qui, dove gli antichi viluppi umani sembrano stemperarsi in un mezzogiorno senza feste? Sapete, oggi tutto appare crudele e inaccettabile, per questo anche i conservatori non sono più tali, si limitano ad amministrare un po’ di paura disumana, abituale, un riflesso condizionato dell’animale uomo. E noi, noi, che proposte abbiamo per il corpo e l’anima di questo mondo, che non declina e non freme? Prima il compagno segretario ha fatto un cenno, fin troppo pudico, alla fine della nostra lotta, al fallimento della nostra gioia, della nostra ira. Questo non è presente, né passato prossimo, compagni: questo è trapassato remoto. Se non ci sapessimo ultrafalliti, ben più che falliti, che senso avrebbe riunirci dopo il lavoro, stanchi e col capo ronzante di suggerimenti, di correzioni, di idee, quelle idee che nessuno, neanche per un momento, può credere capaci di scalfire il popolo? Eppure noi, anche noi, siamo popolo – né più, né meno di chi ci irride o ignora. E dunque? Cosa ho da rispondere al compagno segretario? Niente, ovviamente. Non possiamo continuare così, ma qualcosa, qualche niente, questo mio niente che non risponde, ha bisogno della nostra sciocca impotenza.

En mi yo no vivo ya


Per essere uomo di fronte a Dio, sono costretto a non essere soltanto uomo: come una casa non è chiusura, ma apertura al mondo, quando accetta di essere tenda e di essere mondo.

Privatio


Non è che il male sia misterioso: il male è anzi limitato, è l’indugio del limite su se stesso, è l’illusorio rifiuto, da parte del limite, di chiudere il cerchio vivo, vibrante del mistero. Per questo, io credo, l’inferno resterà in perpetuo e non sarà più al tempo stesso: o meglio, per dirlo in modo leggermente meno insensato, è vero che l’inferno resterà in perpetuo ed è vero che non è mai (che non sarà mai) stato.

venerdì 12 marzo 2010

Inno Akathistos in arabo



Allahu akbar


Se Dio è solo grande, De Sade è il suo profeta. Grazie a Dio, Dio è grande solo in misericordia.

Democrito e la conoscenza


Secondo Democrito, le qualità secondarie esistono nomōi (“per convenzione-stipulazione umana”), mentre ciò che esiste eteēi (“realmente, autenticamente”) sono àtoma kai kenòn, gli atomi o indivisibili e il vuoto. Le qualità secondarie sono il modo in cui percepiamo le qualità primarie inerenti agli atoma. Ora, nomos indica sì la stipulazione umana, ma è assurdo ritenere che questa ‘posizione’ della struttura soggettiva umana sia tagliata fuori dall’“autenticità” o primarietà degli atomi e del loro reciproco disporsi nel vuoto. La conoscenza dell’uomo ha una modalità ‘tolemaica’ (Portmann), uno spessore di relatività prodotto dalle relazioni culturali, è centrata sulla sensibilità integrata in un’esperienza totale e dinamica, culturale, un nomos appunto. L’apertura ‘copernicana’ della ragione ai rapporti geometrico-matematici degli indivisibili non è mai definitiva, ultimativa, si opera sempre su una frontiera mobile. In fondo gli atoma (neutro) sono atomoi (maschile, così in Ecfanto il pitagorico), sono gli dèi, o meglio (forse il neutro allude a questo) sono il ‘punto di intersezione’ (vedi Hinton-Uspenskij) fra le dimensioni altre e la dimensione specificamente umana; e il ‘vuoto’, in quanto vuoto-di-qualità, vuoto di determinazioni, è la materia prima proprio come apertura indifferenziata, pura, spazio del gioco atomico-divino e dell’esperienza senziente-conoscitiva che però non deve coincidere con una spazialità astratta, euclidea, anche se indubbiamente il suo esser-vuota la rende affine all’astrazione. Questo ‘luogo’ indeterminato, apeiron, femminile, è la proiezione capovolta, all’‘esterno’ del Pleroma-Uno originario, della sua vivente curvatura unimolteplice, embrionale-seminale, paragonata all’uovo in moltissime tradizioni; mentre gli atomi sono la moltiplicazione, reale e illusoria insieme, del contenuto seminale dell’uovo, della sua ricchezza formale, che si articola e scandisce ‘all’esterno’ in rapporti geometrico-matematici, in schemi morfologici tramati dalla necessità e dalla contingenza. La verità democritea è, paradossalmente rispetto all’auroralità presocratica soprattutto parmenidea, en bythōi ,“in profondità, nel nascondimento profondo”, non-offerta, nascosta ai sensi e all’intelletto umano, che può accostarsi ad essa soltanto per via di ragionamento filosofico, attraverso rotture (mai definitive) del recinto tolemaico del nomos. Che queste rotture non possano essere definitive si comprende indirettamente, meditando sul carattere di nomos comunque irriducibile in ogni accostamento filosofico, in ogni ricerca razionale. Gli indivisibili sono centri di irradiazione di immagini, eidola, sono limiti reali da cui e a cui si scagliona l’indefinito flusso e riflusso dell’astrazione, generato dal ventre ambiguo del vuoto.

giovedì 11 marzo 2010

La veste nuziale dei miserabili


Meravigliosa intuizione di Péguy: la speranza, bambina, accompagna per mano la fede, che assorbe e vaglia con semplicità e saggezza il racconto della storia, e l’amore, che si installa in un presente aperto alla presenza perfetta. Forzando un po’, mi viene da dire che la speranza mette in rapporto, in comunicazione anche il credente e colui che vive, spesso inconsapevolmente, di nudo amore: senza la sua sorgiva e veggente piccolezza, i due sarebbero mortalmente separati – come spesso accade. Forse è la sua assenza il peccato contro lo Spirito: chi non porta sempre con sé la veste nuziale, chi è impreparato all’incredibile pretesa del Signore che lo invita a banchetto, non potrà essere perdonato, perché almeno con un’oncia del nostro essere dobbiamo saperci figli di re, destinati alla corona.

Honni soit qui mal y pense


Persino Vico, che pure ha saputo penetrare genialmente il nous poetico, l’intelligentia cordis arcaica, cade nel tranello di vedere nei miti greci, come un illuminista di qualsiasi tempo (filosofo pagano o apologeta cristiano), proiezioni legittimanti delle passioni più vili. Questa distorsione della prospettiva procede sicuramente dalla reale e profeticamente necessaria incompatibilità tra la rivelazione abramica e le rivelazioni “gentilesche”. Ma i miti greci, come quelli indiani e “politeisti” in genere, esprimono la ricchezza simbolica del mondo: la vasta enciclopedia di devianze e crimini che il patrimonio di quelle storie ci offre allude al chorismòs, allo scarto tra il fragile e nobile temenos umano e l’abissale, aperta vividezza dell’aion divino. Come dice Wendy Doniger, mentre per Freud i sogni rinviano alle profondità della vita sessuale, per la sapienza vedica e postvedica i sogni erotici alludono – come il Cantico dei Cantici – alle profondità della vita divina.

Il sesso disincarna


Nell’angloamericano corrente c’è l’orribile espressione have sex, tradotta per i doppiatori di fiction con l’orribile “fare sesso”. Non so quale atto sia designato da queste parole. Forse ha una remota parentela con il biblico yada‘, conoscere, con coitus, synousia, mithuna: ma per quanti scalini di estenuazione è dovuto cadere, a faccia in giù, l’arcaico, naturale, culturale, sacerdotale, profano, malinconico, degradante, dissoluto, stupito, pericolante, affannato, affamato, dolce, perduto, sperduto amore carnale dei patriarchi, dei nonni, dei padri e in parte anche nostro, per restare scalciante e morto sotto l’occhio indolore dell’homo neglegens neglegens? Quali frutti, fiori e pezzi di corteccia dell’albero della conoscenza e dell’albero della vita potrà spiccare, quali maledizioni e illuminazioni ricevere, quale apocalisse e salvezza attendere questa strana ex-creatura che è stanca di rigirarsi il talento fra le mani e passa la sua nottata guardandosi fare sesso?

Dionisofanie novecentesche


Geniale Artaud: ne Il teatro e la peste, saggio incredibilmente denso e quasi oracolare, con un apparente paradosso riporta in tutta semplicità il teatro, il tragico, alla sua origine epidemica, dionisiaca, ordalica, sacrificale, comunitaria. Riguardato in questa luce, Samuel Beckett, che pure aveva qualcosa di simile ad un autentico temperamento mistico, risulta essersi gravemente ingannato: come Euripide secondo Nietzsche, ha contaminato la pura ostensione della scena con apologhi, dimostrazioni, tirate di cattiva filosofia; persino le sue migliori intuizioni simboliche soffrono di un certo scontroso esibizionismo da guru cinico – nel senso antico, ovviamente. Forse il Sofocle del Novecento è stato Ionesco, con la sua umanità bagnata di numinoso sperimentato, assunto nella lotta. E l’Eschilo? Chi è stato l’Eschilo del Novecento? Non sarà stato, nei crocicchi luminosi della sua insania, proprio lo stregato, il posseduto Artaud?

mercoledì 10 marzo 2010

A ogni giorno basta...


Preoccuparsi per il futuro è come dare dell'inetto a Dio.

Promemoria per il Guccio

http://www.youtube.com/watch?v=lYEAlcBu9ls

Il ricordo ha senso solo se ci rammenta la presenza eterna del Bello, come tornare sui propri passi in un vicolo sporco per raccogliere un frammento di diamante che luceva nell'oscurità, così spostarsi indietro sulla linea del tempo per ricevere una mollica di vero caduta dalla tavola traboccante dell'Eterno.