Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 11 novembre 2010

Sulla famiglia


La famiglia è un cenobio lunare. Senza il sole della verginità consacrata, non potrebbe risplendere; ma senza la sua luce incerta e ambigua il mondo non vedrebbe nulla nella sua lunga notte. L’atroce potenza del sangue non è originaria, ma è di poco posteriore alla creazione del cielo e della terra. Le nozze non sono chiamate a educare bestioni, ma a captare i raggi del bereshit.

L'impero delle gramigne


L’impero delle gramigne è cominciato
come si deve, con un accampamento
di barbari ardenti e tranquilli sul prato
intorno a un pulviscolo di luna, severa
gioia di migrare, di affondare nel tramonto
la spada dell’aurora. Tutto qui.
Il principio è stravagante, umile, un limo
nel turbine di Dio. Ma sarà sempre vero
che il sogno della pace s’imbandiera sul prato
come ferocia estiva, come il folle
plebiscito che diecimila gramigne
lasciano vegetare in una veglia ingannevole.
E venga dunque il principe beato di sole,
porga un cuore autunnale ai suoi ragazzi,
conforti le radici, dissecchi le cime
inebriate dalla memoria, dai vaneggiamenti
della sapienza! Dimentichiamo anche noi
al margine della festa e sul pomerio del prato
di tarda estate, il cielo inevitabile
della vita straziata, l’avvento gridato
dai semi ogni volta, ogni volta smarrito,
dimentichiamo insieme alle gramigne
il nostro e il loro Annunciatore, l’unico.

martedì 2 novembre 2010

Discorso nel deserto


Andiamo, amici, impariamo
l’amore dalle pietre.
Qualcuno
mi obietterà che, piuttosto, le calme
nella loro durezza indifferente
fanno da degno simbolo all’amore
che nutrì per un giorno lo spettrale
angelo aptero abbarbicato
sulle mura di Sodoma
il mio è il mio e il tuo è tuo, questo
secondo i rabbini il suo motto –:
guardate
meglio, cioè amate (proviamoci)
di più. Chi luce di una così segreta,
temprata carità come quei sassi
che calpestate senza rossore,
e a volontà potete spostare
e incidere e rompere e rifare
con le mani di Adamo o di Caino?
E non cadiamo ancora in tentazione
dicendo che sì, è vero, la figurano
l’umiltà, ma perché per natura
non libere, non perché liberamente
servitrici di tutto in obbedienza
a chi tutto sostiene sul suo seno
– e a fortiori non sanno portare, quasi
più neanche figurano il frutto
della croce, l’amore, non è così?
Andiamo, amici, guardiamo,
tocchiamo i veri poveri, gustiamo
le gocce del loro miele, più antico
della manna e più celeste. Non siamo
degni: almeno spogliamoci
di un inutile velo, di una pelle
spessa e morta, che il Progenitore
non impacciava ancora.
Come può non essere in origine
libera la creatura di un Amante?
E se il moto ricevere da altro,
da fuori di sé ci appare, cosa
e non membro del Figlio dell’Uomo,
non viva pietra intagliata per la
Gerusalemme cui ci ha fidanzato,
ma inerte vestigio del giorno
originale in cui tutto parlava
a tutto, solo immagine – è certo
nel cuore, come noi parlanti adesso
siamo muti e attendiamo morendo
in un’azzima pasta ancora crudi
la nostra vita, così il loro fuoco
attende con il nostro, nel silenzio
amoroso prega, un lento salmo
di pietra, liscio di quiete
e ritegno, puntuto di dolore, o irto
di rughe e schegge che ancora domandano
nella speranza, da quel giorno, il Giorno.

Andiamo, amici,
impariamo.

- Febbraio 2003 –


NOTA:

Il mio è il mio e il tuo è tuo: nel trattato talmudico Avòth è scritto che questa è la condotta [misura, middàh] mediana [la mesotes, o lo jus]; e tuttavia c’è chi dice che è la condotta di Sodoma (a questo punto un commentatore cita Ezechiele 16,49 e dice che i sodomiti “non pretendevano nulla dagli altri uomini, ma non tolleravano che un povero potesse beneficiare delle loro ricchezze”). Nel medesimo testo si parla anche della condotta del santo: Il mio è tuo e il tuo è tuo.

lunedì 1 novembre 2010

Reb Menachem e l’esistenza di Dio


Se Stavrogin crede, non crede di credere. Se egli non crede, non crede di non credere.
F. Dostoevskij, I Demoni

Reb Menachem, l’unico figlio di Avraham Lifschitz, era un uomo molto dotto, molto devoto e molto povero. Quando non studiava, pregava, quando non pregava, studiava, e quando non pregava e non studiava faceva opere buone. La gente del suo miserabile shtetl soleva dire: «La fede di Reb Menachem è incrollabile come il Sinai».
Un giorno, mentre andava di buon’ora all’unica sinagoga del villaggio, passando per l’unica strada, vide un mendicante cristiano riverso nella fogna. Era coperto di piaghe e di lordura dalla sommità del cranio fino alla punta dei piedi, e non aveva nemmeno più la forza per uscire dalla fossa in cui era, evidentemente, caduto durante la notte. D’un tratto venne fuori dal nulla, come un angelo, il giovanissimo figlio del ferraio, Pinchas Yanover, che molti chiamavano Colonna d’Israele per la sua grande pietà; alcuni sostenevano di aver visto il suo volto risplendere come quello di Mosè (se si esclude la barba), e di aver dovuto distogliere lo sguardo per non restare accecati. Sia come sia, questo è quel che si raccontava. Fatto sta che, proprio quel giorno, il ragazzo portava quasi di corsa un piccolo pane caldo involto in un fazzoletto; con grande delicatezza, sollevò il cristiano dalla sua bassura, iniziò a pulirlo con le falde del suo caffettano e gli porse, con la dolcezza di un figlio, il piccolo dono fumante. Non appena lo ebbe fatto, ecco spuntò dall’erba rada una serpe del color dello smeraldo, che lo morse al tallone e fuggì con la rapidità di uno spirito. Il giovane Pinchas impallidì, stramazzò come un vitello scannato e morì torcendosi nella polvere.
Reb Menachem, quando ebbe ritrovato un minimo di presenza a se stesso, disse con voce ferma e metallica: «Sta scritto: Al giusto non verrà alcun danno, gli empi si sazieranno di mali; ed anche: Camminerai su aspidi e vipere! Se un innocente e per di più un giusto è ricompensato con la morte, come può esistere Dio? Dunque, Dio non esiste».
Già si addensava una piccola folla di dolenti e curiosi. Reb Menachem, avvolto nel suo sdegno, tornò a casa con il passo di un leone, deciso a bruciare tutti i suoi libri e a ballare sulle loro ceneri. Ma appena ebbe estratto un tizzone dalla stufa, pensò: «Se un giusto è ricompensato con la morte, come può non esistere Dio? Il mondo è pieno di male e ha bisogno di Dio!». Ma si rimproverò immediatamente, prima col rigore di un maestro di yeshive, poi con un amaro sorriso: «Il fatto che il mondo ne abbia bisogno, non vuol dire che esista! Se alla realtà del bisogno corrispondesse necessariamente la realtà del suo oggetto, il male appunto non esisterebbe; mentre l’unica cosa di cui si può esser certi è l’esistenza del male!». E bruciò la sua biblioteca. Ma poiché era onesto, e non voleva la pace senza la luce dell’intelligenza, non ballò sulle ceneri; anzi, lasciò intatta dalle fiamme una pagina bianca, si sedette all’unico tavolo della casa, prese la penna e l’inchiostro e scrisse lentamente: «Il mondo ha bisogno di Dio, ma Dio non esiste!». Dopo di che, Reb Menachem continuò in qualche modo a vivere da ebreo; non studiava e non pregava, ma faceva sempre molte opere buone, come poteva. «La fede di Reb Menachem è incrollabile come il Sinai», diceva la gente dello shtetl.

Un giorno, mentre passeggiava poco fuori del villaggio, vide un povero straccione accattone – uno shnorrer, insomma – seduto su una larga pietra vulcanica. Era secco come uno scovolino da pipa, e quasi altrettanto nero; i cenci bisunti che gli stavano addosso avrebbero potuto avvolgere, insieme a lui, anche il suo gemello, ma era improbabile che avesse qualcuno a questo mondo. Non appena Reb Menachem gli passò a tiro, lo straccione gli disse: «Dammi del pane, che ho fame». Menachem rispose: «Non ne ho nemmeno una briciola, fratello mio. Devi sapere che quest’anno, come se non bastasse il resto, una grave carestia ci ha colpiti tutti, ebrei, gentili e bestie senza ragione, per non parlare delle povere piantine della terra». Lo shnorrer insistette, con voce più lamentosa: «Ma qualcuno deve pur averne! Ti prego di andarmene a cercare un pezzetto soltanto». Reb Menachem si afferrò la barba e disse: «Chi ti dice che qualcuno debba averne? Questa comunità è particolarmente povera». Il mendicante sospirò, gettò il capo all’indietro e disse con amarezza, forse solo a se stesso: «Gran brutto vizio il mangiare! Se non avessi mai assaggiato il pane, ora neanche avrei fame!».
Menachem sembrava un albero fulminato. Appena ebbe ripreso a respirare, si prostrò davanti allo straccione e gli disse: «Ti prego di aspettare un po’: devo tornare a casa a sbrigare una faccenda. Quando sarò tornato, ti servirò come discepolo». Il povero dotto riguadagnò la strada di casa a grandi passi; entrò, cercò e trovò la vecchia pagina di qualche anno prima, si sedette all’unico tavolo, prese la penna e l’inchiostro e scrisse in fondo al foglio, lentamente, ma con trepidazione: «Dio ha bisogno del mondo, per questo il mondo ha bisogno di Dio». Poi uscì senza prendere nulla con sé, e andò in giro per il mondo a mendicare col suo maestro, lo shnorrer.

Il tempo passò, e per Reb Menachem venne l’ora di morire. Stava sul ciglio di una strada di campagna, scosso dai tremiti della febbre, ma era ben altro a farlo fremere fin nelle ossa. Il vecchio vagabondo che aveva servito per tanti anni era chino su di lui e gli asciugava il sudore. Sentendosi prossimo alla partenza, Menachem trasse un lungo sospiro e disse: «Maestro, ho taciuto per tutto questo tempo, ma c’è un peso che non si sposta e non si allevia, ancora qui, sul cuore. Dimmi, Dio esiste?». Lo shnorrer, stupito, si grattò la testa ed osservò: «A questo pensi, sulla polvere della strada, mentre te ne vai?». Menachem si lamentò: «E a che devo pensare? Ti supplico di dirmi se Dio esiste, maestro mio, e me andrò in pace, buono buono, come un animale da soma». Il “maestro” aveva una strana espressione: «Ma chi è Dio? Vedi, io sono molto ignorante, e tu devi spiegarmi la domanda se pretendi una risposta». Menachem non era più molto lucido, sicché raccolse le forze residue in un respiro rauco e possente, e ribatté: «Non lo so, per questo lo cerco! Solo una cosa so: che il mondo ha bisogno di lui e lui ha bisogno del mondo. Se il mondo non fosse quello che è, che motivo avrei di domandare?». Lo shnorrer pensò un poco e disse: «Mah, senti – tu sai solo una cosa, e anch’io so solo una cosa: io ti feci una domanda, molto tempo fa, e tu mi rispondesti. Che altro c’è da chiedere?». Menachem disse, impaziente: «Vuoi dire che se qualcosa c’è stato, se qualcosa c’è, allora Dio c’è – o per lo meno è come se ci fosse?». E aspettò che il mendicante continuasse. Questi pareva sempre più interdetto, ma poi rispose, con fermezza e timidezza: «Che voglio dire? Voglio dire che tutte queste parole non te le porterai dietro. Non ti porterai dietro niente. Se fra poco non ci sarai più, è perché ci sei adesso. Cosa c’è adesso? C’è qualcosa, adesso?». «Sì» disse in un soffio Menachem, «c’è qualcosa». «Gli vuoi dare nome e patronimico, oppure vuoi startene fermo e zitto?». Menachem rispose come portato da una risacca: «Voglio starmene fermo e zitto». Allora lo straccione, accorgendosi che il suo discepolo non aveva più evidentemente la forza per muovere la lingua, disse piano piano: «Meglio così. Perché il nome di adesso siamo io e te, e solo io posso dirtelo: da solo come fai? Sii benedetto, Menachem figlio di Avraham Lifschitz, figlio mio, opera delle mie mani. La tua fede è incrollabile come il Sinai, e hai avuto il tuo pane». Il moribondo aveva già perso conoscenza. Lo shnorrer gli chiuse gli occhi dolcemente, mormorando una parola, poi si alzò in piedi, e fuggì rapido in cielo su una nube di fuoco.