Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 21 settembre 2011

Maschile e femminile nella rivelazione profetica (2005)


L’uomo è la nubuwwa, il mandato profetico, soprattutto in quanto è associato ad una risala, ad un messaggio divino fissato in una scrittura, ed implica i principi di una shariʻa, di una legge di santificazione comunitaria. L’uomo incarna la linearità della responsabilità giuridica.
La donna è la walaya, la santità mistica come sequela della profezia e suo compimento. Nella sura delle Donne, al versetto 34, si legge che sono hafizatun li-l-ghayb bi-ma hafiza Allah: preservano per l’Assente (per l’Essenza divina nella sua huwiyya) ciò che Dio preserva (gli archetipi o nomi divini intatti dalla discesa – tanzil – profetica).
L’uomo maschio rappresenta l’uomo in toto – unico colpevole del creato e khalifa di Dio. La donna media, giuridicamente, tra il bambino e l’adulto; è simile all’orfano: misticamente media tra il mistico e il profetico, tra l’esoterico (batin, connesso a batn, “ventre”) e l’essoterico “rinnovato”, tra la prima e la seconda creazione.
Secondo il detto sufi, l’uomo dev’essere maschio verso la terra e femmina verso il cielo. Qui la maschilità sembra metafora della preparazione ascetica, della negatività connessa alla legge, e la femminilità appare il culmine e la perfezione dell’esistenza umana, la sua passività e ricettività al divino, all’invisibile. Ma poiché l’itinerario è circolare o piuttosto spiraliforme, la maschilità accenna alla superiorità del profetico nei confronti dell’esoterico, in quanto suo fondamento e sua discesa nel particolare, nel terrestre (così il fine della ricerca spirituale è vedere con entrambi gli occhi, cogliere la molteplicità come teofania dell’Uno); la femminilità riprenderà allora, di nuovo, il proprio statuto di mediazione universale, alludendo all’altissimo ma non definitivo permanere dell’anima pacificata nel silenzio mistico, nell’estinzione o fana’.
La donna non può essere imam (non può “stare davanti”, nel senso della linearità giuridica), ma è anch’essa mukhallafa, ha ricevuto l’istikhlaf (la successione, che è in rapporto al “dietro”, al “ritorno” comune verso Dio).
La nubuwwa o profezia è la maschilità (lo zolfo), la risala o invio di una scrittura è l’elisir. L’alchimia è sorella della nubuwwa, secondo il detto dell’imam Ali, il suo samit esoterico (tacendo opera la parola profetica, il kun creatore).
È maschile la Parola quando si fa particolarmente universale (tzimtzum e Torah, tanzil, incarnazione del Verbo in Gesù): femminile è l’offerta alla comunità, l’occultamento (commento e Shekhinah, rapporto fra santità e ta’wil, morte/resurrezione di Gesù).

martedì 20 settembre 2011

Per chi combatte (2004)


È urgente lottare per lo spazio interiore, immaginale, piuttosto che per quello esterno, che è una proiezione celebrativa e comunitaria del primo. Lottare pro aris et focis: i centri immaginali della comunità. Così ogni guerra è un’ordalia, un processo alle intenzioni, ascesi e jihād. Al-jihād al-saghīr (il piccolo jihād, lo sforzo ascetico e militare contro i nemici della fede incarnati in esseri umani concreti) è ‘piccolo’ nella misura in cui è abbracciato e preceduto dall’altro, il ‘più grande’. Combattere per lo spazio esterno è connesso alla caduta dell’anima nelle sue proiezioni: forse non è un caso che Caino fosse agricoltore (e soprattutto che il midrash insista sulla spartizione territoriale come origine del conflitto: il mio è il mio e il tuo è il tuo), che Romolo abbia tracciato il solco, che l’aratro scavi il solco e la spada lo difenda. La guerra riattualizza il sacrificio/eccidio primordiale, padre di tutte le cose, che ha dischiuso lo spazio dall’interiorità vibrante, acustica, del tempo o logos. La sua ananke impersonale, cosmogonica, sacrificale, consente all’interiorità di vivere e far frutto nell’ascesi (l’unica e sola innere Erlebnis): la furia dionisiaca in cui vibra il cuore di pace, l’occhio della tempesta, Apollo-Dioniso congiunti o, in religioni a più forte impronta patetico-profetica, la collera regale o paterna che conserva un cuore di dolcezza, misericordia, carità; o meglio – in religioni e culture più chiaramente nondualiste – la misericordia stessa è l’essenza, il gioiello dell’atto marziale, accoglie lo squilibrio del nemico per redimerlo e pacificarlo, compie una epistrofè spontaneamente, perché il seme aureo dell’ira è karuna. La guerra è anche comica: una burattinata, un gioco di forze preterindividuali – e quindi un’opportunità per lo spirito, per la spiritualità del sacrificio (karma-yoga nella Gita) che media, in modo potenzialmente tragico (posizione centrale della casta guerriera, dell’eroe come patiens che dev’essere redento dallo sguardo apollineo dell’epica o dalla terapia della crisi dionisiaca, fondata sulla possessione o sulla sua alienazione, più prossima al logos, nel teatro), fra il comico e moksha. Come ogni iniziazione, la guerra è una trama diabolica, una strage, che si offre pericolosamente (senza garanzie) come sacrificio. Non va cercata né sfuggita (ananke): chi la cerca è gabbato, come il Mefistofele goethiano, pensa di reggere i fili che lo reggono, è un pupazzo che l’archetipo dementat prius.

L’interpretazione rabbinica del Tanakh come lotta di Giacobbe col corpo letterale della Scrittura, per non esserne sopraffatto e ricevere la benedizione.

“Distruggi la Kaʻba e ricostruiscila nel Nascosto” – “Distruggete questo Tempio…”. La guerra, come il sacrificio e la tragedia (come il Giudizio in genere: vedi il sermone di padre Felice nei Promessi Sposi), ripetendo lo strappo originario che ha generato lo spazio, lo inverte – e lo compie. La terra chiede di esistere intimamente in noi: è l’epistrofè di Plotino (e di Lao-tzu) e l’Irruzione di Meister Eckhart.
Ramakrshna che taglia in due l’immagine della Madre con la lama della discriminazione (viveka). L’immagine appartiene a karuna, al relativo, al sacrificio, bisogna svuotarla, vederla non-separata dal Vuoto (fanā’ dell’immagine-idea monoteistica, affinché sia possibile il baqā’, il non-due, la trasparenza perfetta Shunyata-Karuna).

La guerra giusta: il giusto è tragico, media tra necessario e buono.
La guerra santa: santo è Dio, ma sia nella propria intangibilità, sia nell’anticipo/attesa della pienezza messianica, ultima. Il Santo, sia benedetto (Qadosh barukh hu), è il Nome di Tif’eret, del Dio maschio, del Cielo. Dio combatte, è Uomo di Guerra, nella misura in cui ha fede. Ha assegnato la Terra ai non-eletti, ora va contro se stesso, abroga le disposizioni precedenti, si contraddice come tutto ciò che è vivo, individuale. L’ascesi-jihād del Dio unico e giusto è la sua lotta per diventare concretamente universale, Tutto-in-tutti, per aprirsi al commento talmudico, per superarsi: è la sua richiesta di essere “libero da Dio”, dal monoteismo assurdo o provvisorio dell’Ens Supremum, del Dio come Superuomo. Dio vuole e non vuole (nella fede) l’esilio del popolo a cui si è legato: l’esilio della sua Shekhinah in cui si manifesta particolarmente, temporalmente, storicamente. Bene Massignon: il semitico è sacrificale. Un Dio che si sacrifica (e si contamina), per questo tende a disprezzare, nella coscienza del profeta, la macchina del sacrificio sacerdotale, alienazione misericordiosa e magica (quindi imperfetta) del comune sacrificio di Dio e uomo legati in una berith passionale, viscerale. Un Demiurgo passionale che vuol essere iniziato – sicuramente una sapienza inferiore, etton, rispetto a quella delle metafisiche enopoliteistiche, non-duali; tuttavia fede e ignoranza-follia, in quanto creatrici, sono pegno della sapienza esoterica massima, quella della trasmutazione del cosmo in Nuovo Adamo.
Il Dio profetico è tanto l’essoterico, quanto l’esoterico dell’esoterico, rispetto allo gnosticismo, che è una mediazione razionale e sapienziale. È l’ineliminabile orizzonte letterale della rinarrazione gnostica. È così immediatamente sublime, enorme, assurdo, da capovolgersi nell’umanissimo, nel troppo umano – la legge, il sentimento, la debolezza. “Yah qanna’ è il Suo Nome”: Dio del pathos, YH supremo che si completa nel WH del pathos.

lunedì 12 settembre 2011

Tao, regalità, cultura (appunti del maggio 2005)


Cielo e terra trattano i diecimila esseri senza ren, senza morale. La morale “orizzontale” non è in se stessa fondata (e a fortiori non è fondata in se stessa). Li trattano come “cani di paglia”, individualità composite e transeunti buone per il rito della vita. Il tratto “disumano” della massima taoista è reale, ma legato alla limitatezza dell’umanità, del ren. Quindi il saggio/santo, immagine del cielo-e-terra come manifestazione del tao in virtù del suo te o efficacia magica, non ha ren, umanità, morale, nei confronti degli uomini di cui è il reggitore reale, nascosto: egli rafforza il suo e loro ventre (l’accoglienza radicale del tao, la fede-pratica che cuoce i contenuti dell’esperienza nel forno alchemico del ventre) e indebolisce le ossa, rinuncia all’occhio (non coltiva l’individualità e la conoscenza che la solidifica). Il wu-wei, non-intervento (Granet), è anche non-cultura, o per meglio dire una rinuncia a costruire la cultura, la psiche. Le autonomie relative (uomo, ragione, esseri in quanto causae secundae, cultura) come nel Mahayana vengono poste proprio in quanto non-diverse dal Vuoto, dal Tao: la loro posizione è quella ambigua dell’immagine, illusione-realtà rivelata, libero gioco del te. Il saggio/santo sostiene il mondo annullandosi: la sua regalità è ampia come il Tao, mentre il potere sciamanico è limitato, ancora vincolato all’“azione”, all’ottenimento.
Il “popolo” è la psiche stessa. Il re-santo, fine punta dell’anima, servo dei servi (impluvio del mondo) e pura maestà, lo regge senza reggerlo: l’atto dev’essere semplice, così l’idiozia spontanea della mente animale può giocare liberamente. Ma il “rifiuto” della cultura (confuciana) rende il taoismo ambiguo: il re può diventare l’autocrate esoterico sasanide, l’imam fatimida, oppure l’implacabile scolta della Legge secondo i Legisti (e i loro strani discepoli maoisti e khmer rossi). La cultura fiorisce solo nel crepuscolo della decadenza, che è un’alba alchemica: l’alba utopica dell’Età dell’Oro, se letteralizzata (cioè se non passata attraverso la ruminazione e la riflessione della cultura), è mito diabolico, assassina l’anima. Però, non-intervenendo, non si intende costruire e costituire nulla: la cultura è libera, ogni epoca è decadenza, transito, kairos del risveglio spirituale. Il taoismo “si vincola” alla marginalità: “condannando” la cultura, il wei, il ren, li preserva svuotandoli (è quasi l’atteggiamento buddhista Mahayana). L’humanitas ha bisogno della barbarie (schiavi, bestiame, follia, anarchia, nomadismo), il tao è il sorriso inafferrabile di Dioniso, la sua misericordia “inumana” al di là della sua epidemia “disumana” (assalto del barbaro, stupro, disordine sociale e psichico). Il taoista insinua che è l’humanitas a creare la barbarie: le serve, le giova; spezzare questa dialettica atroce, in cui consiste lo spirito storico, non è fuga nella “natura” (sarebbe interna alla dialettica stessa), ma il lasciar-essere la dionisiaca regalità del te, la potenza affrancata da ogni dualità, da ogni angosciante e angosciata meschinità. Altrimenti la magia di Dioniso, se infetta una psiche umana, genera superuomini terribilmente farseschi: Alessandro l’insaziato, Marco Antonio l’orgiasta, Nerone l’istrione, forse anche i timuridi micidiali e delicati, e il primo imperatore della Cina, Qin Shi Huang, l’aspirante immortale. I papi imperiali e gli imperatori sasanidi, bizantini, germanici hanno cercato di crocifiggere alchemicamente, col ferro del verbo profetico, il mercurio dionisiaco. L’imperialità del verbo può sciogliersi solo, saturninamente, tristemente – e gloriosamente – nell’esoterismo della santità/sapienza, che è sempre la pietra scartata su cui è fondato l’intero edificio.

domenica 11 settembre 2011

Riflessioni filosofiche estive/2


Berkeley: Esse mundi est percipi. Lo spirito o soggetto non fa parte del mondo, è il limite del mondo: non può essere percepito, se ne può avere una nozione, una conoscenza intellettuale. Lo spirito o mente creata, limitata, è attiva e passiva: produce le idee ricevendole; lo spirito sommamente attivo o Dio, atto puro, percepisce (sé) creando l’uomo e gli altri esseri, percepisce (sé) nell’uomo. Le idee astratte sono legittime se non vengono separate, ipostatizzandole, da quelle concrete: sono la grammatica del linguaggio divino-mondano (umano), che può solo essere mostrata-usata. (Ciò rende possibile una scienza poetica). La tesi del saggio sulla visione è espressa in modo maldestro: le idee visive non sono mero segno di quelle tattili, non si può ridurre un ambito sensoriale all’altro; le idee di un senso esprimono più o meno confusamente le idee di ogni altro, e il sesto senso, l’immaginazione o synaisthesis, sensus communis, costruisce nella sua relativa unità la percezione-mondo. Importante comunque l’intuizione delle idee concrete come linguaggio: un linguaggio geroglifico – le percezioni sensibili, che Leibniz e Spinoza definiscono confuse, proprio per la loro confusione intuitiva, per la loro passività, esprimono l’attività creatrice dello spirito in alio (ogni prospettiva o fenomeno esprime, manifesta suo modo, nella sua contrazione, il mondo-tutto che esprime Dio, l’Uno).
Il cieco che riacquista la funzionalità dell’organo vede un insieme di particolari come se fossero nel suo occhio o nella sua mente, ma è proprio anche dell’animale costruire un mondo di oggetti visivi-tattili attraverso l’immaginazione, sebbene confusamente e sempre in modo particolare (sempre in un sogno di proiezioni bidimensionali il cui spessore si dispiega nel tempo-movimento). L’immaginazione media tra concreto e astratto, tra il particolare concreto e l’universale astratto, che è una costruzione logica, un ens rationis in cui però si mostra l’unità irrappresentabile dell’intelletto, del Soggetto-Spirito che unifica il molteplice. (La logica non è congetturale, non è una costruzione della mente che partecipa della verità proiettandola, incarnandola nella sua forma segnica, nel suo simbolo, ma proprio in quanto sistema dei rapporti necessari non può essere costruita. La ragione stessa non può che essere il farsi del linguaggio a partire dal-in direzione del nous che è l’intuizione del concreto come particolare-universale, uno-tutto, tutto-in-tutto, il mistico di Wittgenstein, il che contrapposto al come).
Se contemplo l’oggetto purificandone l’idea sensibile dall’ignoranza (chiusura nella prospettiva individuale), dall’attaccamento (l’oggetto come mera proiezione di un bisogno animale) e dall’avversione (la determinazione come negazione, la separazione), sono attivamente presente all’oggetto, lo colgo in un sonno sovrarazionale che lo lascia emergere dalla mia stessa mente purificata come una sua articolazione e al tempo stesso come oggetto puro, manifestazione del mondo e di Dio o del Sé. La meditazione-ragione mi ha già accompagnato connettendo il particolare con il mondo intero: attraverso l’interdipendenza o causalità circolare, attraverso la conoscenza della sua necessità e al tempo stesso della sua contingenza; così i nessi razionali e immaginativi mi hanno condotto sulla soglia di un salto, che però è un salto nell’oggetto-sensazione e non al di fuori di esso-essa; ora la sensazione è libera dalla particolarità confusa del particolare, ma non per accedere all’universale immaginario-razionale, bensì al particolare come totalità manifesta, come sintesi di finito e infinito, come contrazione dell’infinito (stavolta è un genitivo soggettivo o piuttosto soggettivo-oggettivo: come atto dell’infinito, come atto di essere-conoscenza dell’infinito). In tal modo la mente riposa in sé e nell’oggetto, e la sua uni-dualità è la conoscenza e la vita (l’essere) supremo che le è dato attingere: in essa si manifesta l’Uno, che è appunto presente nell’esperienza noetica come senso e fondamento della sua fruizione. L’estasi di Plotino come esperienza privilegiata dell’Uno è, in quanto esperienza, solo una conferma (un po’ come la produzione di oro quando si è ottenuto il Lapis): l’accesso all’Uno è la vita stessa dello jivanmukta, il superamento vissuto di ogni dualità.
La filosofia di Berkeley, con le sue aporie e le sue incoerenze, è utilissima come stimolo dialettico per comprendere il percorso circolare dalla percezione sensibile, passiva, all’intuizione intellettuale. In quest’ultima il particolare è la determinazione dell’infinito, è un particolare articolato e non confuso, e l’universale non è l’astratto, ricavato dalle somiglianze e dalle associazioni, ma l’universale concreto che è l’unità e l’identità (questo rosso è il rosso, lo stesso rosso, il rosso stesso).
Berkeley: l’idea sensibile o intuizione confusa, passiva, è costituita, relativamente alla vista, solo di luci e colori. Analogamente, nell’intuizione intellettuale non c’è che il manifestarsi, il contrarsi della luce. La costruzione immaginativa-razionale (animale-umana) del mondo è un velo ma anche (in quanto) organizza ciò che è confuso in una unimolteplicità più distinta, prevedibile, manipolabile-conoscibile: un sogno i cui nessi si rivelano necessari, identici, comuni.

sabato 10 settembre 2011

Riflessioni filosofiche estive/1


Conoscenza confusa: intuizione del particolare come solo-particolare, rimanda alla mera evidenza, alla “autorità” dei sensi. È l’impronta confusa dell’intuizione in senso proprio (Plotino: le sensazioni sono intuizioni oscure o confuse, le intuizioni sono sensazioni chiare).
La conoscenza del secondo genere o distinta è quella causale, che si fonda sulle definizioni, e coglie quindi l’essenza, l’universale, è perfetta nella matematica (di qui l’ordine geometrico e dimostrativo dell’Ethica spinoziana), aperta e imperfetta nella fisica. Dio o la Natura produce-crea modi, ovvero res singulares, non universali, per cui la conoscenza suprema, di terzo genere, intuitiva, sarà un conoscere il particolare come modo necessario ed atemporale in cui si manifesta la Sostanza-Uno; tuttavia solo la conoscenza del secondo genere, fondata sulle notiones communes, sul lume naturale etc. la prepara. La filosofia – l’Ethica – è la conoscenza discorsiva delle connessioni causali che libera la mente umana e la conduce all’unificazione della conoscenza intuitiva, sintetica.
L’immaginazione è il senso comune, principio neutro della conoscenza confusa, dell’unità confusa e parziale o unità del particolare. Forza plastica, per lo più inconscia, se illuminata dalla ragione o lume naturale e ad essa congiunta conduce alla libertà. In Spinoza corrisponde alla percezione-espressione confusa delle “monadi nude” di Leibniz, quasi totalmente passiva (materiale-particolare).
Per il principio del parallelismo, se la mente è l’idea di un certo corpo – e l’idea che Dio ha di quel corpo – il corpo sarà l’espressione di una certa mente. Ma in Leibniz l’estensione-materia è risolta nella percezione-rappresentazione, che nella sua filosofia resta il filo rosso tra i vari livelli ontologici (sebbene sia detto più volte che la conoscenza-azione divina, in quanto atto puro, trascende essenzialmente l’espressione e l’azione della monade, attiva-passiva, limitata, creata: ciò è rintracciabile anche nella natura stessa della percezione, espressione del mondo che è a sua volta specchio-espressione della monade – e principialmente della Monade-Dio). In Spinoza cogitatio ed extensio sono gli attributi attraverso i quali l’intelletto limitato pensa la Sostanza-Dio: nella res singularis, nel modus, alla radice di entrambi, anima e corpo, pensiero ed estensione, c’è il conatus che è l’essenza della cosa, la sua potenza, la sua forza individuante. (Ma cos’è il conatus, in quanto azione-passione, in Dio? In Ibn Arabi sarebbe il desiderio, la nostalgia del Nome o Possibile di manifestarsi, di essere conosciuto. Su questo Spinoza tace, il “passaggio” dall’infinito al finito, la manifestazione-creazione, è l’indicibile, l’aporia del Parmenide. Se ne può parlare solo per immagini, per imaginationem, dunque in modo confuso, relativamente errato o inadeguato).
Movimento circolare dal particolare al particolare, dal reale al reale: la sensazione è un’intuizione confusa, l’intuizione una sensazione chiara e unificata nella sua distinzione-molteplicità (intuizione al di sotto e al di sopra della ratio). La ratio dà ragione del particolare riconducendolo alle idee comuni e necessarie, ai veri universali: è una conoscenza chiara, distinta e adeguata (analitica) che connette il particolare a tutti gli altri in una concatenazione virtualmente infinita, che apre la mente alla scienza intuitiva, alla visione dell’essenza del particolare, ovvero del suo conatus, come determinazione di un attributo divino – ovvero una conoscenza a partire dal nous, nel nous. (Presenza del nous al noeton nell’immediatezza, nella semplicità). Ogni determinazione è negazione, di qui il conatus come attivo-passivo, come limite nel suo duplice senso: ma in quanto determinazione della Sostanza, colta cioè sub specie aeternitatis, la res singularis è affermata in Dio, nella sua causa immanente, cui inerisce eternamente e necessariamente. (Fana’ e baqa’ nel sufismo, shunyata nel Mahayana: la non-indipendenza manifesta la Non-indipendenza, l’impermanente e contingente si realizza come espressione immediata di Ciò che non ha limiti, individualità, separatività).
Substantia-Natura-Deus: wujūd-dhat; Attributi: asmā’ wa-l-sifāt; Modi infiniti-essentiae (formales): aʻyān thābita; Modi finiti: mawjudāt. Il concetto di contrazione in Cusano. Tutte le aporie o le incoerenze relative al passaggio dall’infinito al finito, al rapporto tra mondo eterno e mondo temporale, tra necessario e contingente etc., dal Parmenide (e da Parmenide) in poi, rimandano al chorismos come vuoto, salto, riflessione nello specchio: rimandano, perché la ragione ha un’apparenza costruttiva e un’essenza dialettica (come Apollo, che si chiama vita e opera morte), percorre la serie delle cose finite che è indefinita e interconnessa in un modo che non si può risolvere analiticamente, e il cui rapporto con il paradigma ideale-divino è una “partecipazione” di per sé incommensurabile.
Seguendo il ragionamento di Leibniz, immaginazione (nel senso spinoziano) è cogliere la verità come segno, identificarla con il segno, mentre la ragione la coglie attraverso il segno, nel segno. L’immaginazione è pensiero corporeo, in senso negativo è l’identificazione col corpo, l’attaccamento al corpo, in senso positivo o neutro è il sostrato dell’espressione nella sua unità pensante/estesa.
La ratio si allontana dalla res singularis, dall’imago animale, perché per pensare in modo distinto occorre inventare un sistema di segni, un mondo astratto. L’uomo “dà” la terza dimensione alla natura, ma il suo telos è la quarta, l’intuizione animale-angelica come perfezione umana, la sintesi di finito e infinito nello specchio di una mente liberata.
Conoscenza di secondo genere e apatheia. Le passioni come espressione della Wille-cupiditas: l’ignoranza coincide con la chiusura immaginativa nella prospettiva individuale – la concupiscenza è la passione vegetativa, il bisogno-attaccamento al nutrimento, alla perpetuazione – l’ira è la passione animale della difesa, dell’inquietudine-fluctuatio. L’apatheia le trasforma, le unifica nell’intelligendi conatus che è potenza sommamente attiva.
Aisthesis: percezione cosciente, appercezione (animale), sogno (proiettato dal desiderio). Phantasia: percezione, espressione di un centro di forza vitale e rappresentativa, principio o stuff del sogno. (Corpus Hermeticum: ogni vita, ogni ghenesis, è phantasia. La aisthesis però è la vera e propria esperienza (animale) della nascita). Lethe: massa delle percezioni confuse, aspetto o origine ideale della materia.
Modi spinoziani come energheiai, fulgurations (irradiazioni) leibniziane di Dio?
Corpus Hermeticum: aisthesis e pathos hanno lo stesso principio. L’essere inanimato le sperimenta solo in relazione ad accrescimento e diminuzione – come dire che percepisce confusamente – ripercuote soggettivamente – solo i processi vegetativi (ma l’espressione della sua attività è il corpo, vedi Fechner sulle piante).