“Non ho mica la
bacchetta magica!” dice l’uomo politico che, dopo aver promesso la Gerusalemme
Celeste, finalmente eletto depone la tunica del profeta e indossa i grigi panni
del funzionario severo e responsabile. Invece sì che hai la bacchetta magica!, occorre
rispondergli: la verga di Hermes, il Caduceo, la chiama Epitteto, l’unica
facoltà davvero pratica a questo mondo – l’immaginazione guidata dalla volontà
spirituale. Se volessi cambiare quelle tre o quattro cose che distinguono un
dolce ostello dalle ceneri di Sodoma, se anzi semplicemente le volessi con l’energia
con cui da bambino volevi la luna (e non eri folle: sentivi che si può possederla
in ictu oculi, e non si può mai raggiungerla), nel peggiore dei casi
lasceresti un mondo segretamente incinto di Paradiso. Il punto è che non vuoi
volere. Il punto è che usi la tua bacchetta magica solo per mutare in pietra te
stesso e i tuoi compagni d’armi.
giovedì 31 ottobre 2013
Aspettando Novembre
Tra i meravigliosi explicit della narrativa, quelli che
hanno forza di katanyxis (Don Quijjote, Morte di Ivan Illich, Moby
Dick, Processo), il più
gloriosamente umile – gloria di crepuscolo ermetico – è quello del retore
isiaco, la trasfigurazione, il ritorno di Lucio, intimamente svuotato, al foro,
al mercato della sequenza zen: “Così, di nuovo, con i capelli completamente
rasati, senza velare o coprire la calvizie, ma anzi mostrandola a tutti, mi
dedicavo pieno di gioia ai doveri di quell’antichissimo collegio fondato dai
tempi di Silla [Rursus denique quaqua
raso capillo collegii vetustissimi et sub illis Syllae temporibus conditi
munia, non obumbrato vel obtecto calvitio, sed quoquoversus obvio, gaudens
obibam]”. L’ultima frase vuol dire anche: “Dovunque fossi diretto, vi
andavo con gioia”, ma anche, il che è appunto unum et idem: “morivo pieno di gioia”.
Qualunque cosa si pensi di Tommaso d’Aquino (personalmente lo ritengo
uno dei massimi mistici “sobri” del cristianesimo medievale), ogni libro di
teologia dovrebbe iniziare come la Summa
Theologiae, quaestio II, articulus 3:
“Esiste Dio? Sembra di no”.
La regina Maria Antonietta,
salendo i gradini che la separavano dalla Vedova, pestò il piede del boia Sanson
e prontamente gli disse: “Signore, vi chiedo perdono, non l’ho fatto apposta”.
L’ammiraglio Heihachirō Tōgō, il trionfatore di Tsushima, facendo visita al suo
avversario, Rožestvenskij, bendato per le numerose ferite ricevute, si inchinò
di fronte a lui e gli espresse il suo “profondo rincrescimento”. Se uno
sconfitto o un vittorioso sono capaci di simile cortesia (ed è difficile per
entrambi: si tratta di contrastare la rapinosa corrente della pesanteur), non sono né vittoriosi, né
sconfitti: volano alto al di sopra delle fragili e caliginose contingenze della
storia.
La parola
di Dio è una spada a doppio taglio, dice l’autore della Lettera agli Ebrei.
Proprio per questo non bisogna smussarne il filo con interpretazioni che
tengano troppo distanti i due sposi, lo Spirito e la Lettera. “E i figli
d’Israele servirono Eglon, re di Moab, per diciotto anni. Ma i figli d’Israele
gridarono al Signore e il Signore fece sorgere per loro un salvatore, Ehud
figlio di Gera, della tribù di Beniamino, un mancino; e i figli d’Israele
mandarono per mezzo di lui un’offerta a Eglon re di Moab. Ed Ehud si fece una
spada a due tagli, lunga un cubito, e se la cinse sotto la veste, al fianco
destro. E portò l’offerta a Eglon re di Moab. Eglon era un uomo molto grasso.
Quando ebbe terminato la presentazione, mandò via le persone che avevano
portato l’offerta. Ma egli tornò indietro dalle cave che erano presso Gilgal e
disse: ‘Ho una parola segreta per te, o re’. Questi gli disse: ‘Silenzio!’ e
quanti stavano con lui uscirono. Allora Ehud si accostò a lui, che sedeva da
solo nella Stanza della Frescura [il cesso], al piano di sopra. E disse Ehud:
‘Ho una parola di Dio per te’, e l’altro si alzò dalla seggetta. Allora Ehud
allungò la mano sinistra, trasse la spada dal suo fianco destro e gliela infilò
nel ventre. Anche l’elsa entrò dopo la lama, e il grasso si chiuse intorno alla
lama. Così egli non tolse dal suo ventre la spada, che gli era uscita da
dietro” (Giudici 3,14-22).
Leggendo Mulla Sadra
Mulla Sadra Shirazi dice che i maestri
orientali e occidentali, quando parlavano di trasmigrazione delle anime (tanasukh), non intendevano la loro
letterale dislocazione da un corpo fisico all’altro, ma la loro acquisizione di
un corpo immaginale, sottile, corrispondente alle azioni e alle intenzioni
della vita terrestre, di cui diventano consapevoli all’ingresso nella
dimensione angelica del Malakut, l’“esoterico”
della dimensione visibile-tangibile, il Mulk.
Così ci è forse offerta una
chiave per comprendere l’eros immaginale degli antichi e soprattutto dei
medievali, che sanzionavano fermamente l’adulterio, fisico e legalmente
imputabile i pagani, anche fantasticato o interiormente nutrito i cristiani. L’“amore
libero” moderno è letteralistico: ad ogni innamoramento segue un ‘cambio’ di
corpo, la trasmigrazione (riduttivamente intesa) da una scena di vita all’altra,
anzi, da una vita all’altra. Ma il trovatore medievale o l’erastes platonico sapevano che l’esistenza visibile è una sola ed è
intessuta di riti, mentre il desiderio e la fede del cuore costruiscono il
corpo dell’altro mondo, del mondo immaginale: l’amore ‘altro’ non conduceva
necessariamente al dilemma dell’appagamento adulterino o della sterile
repressione, perché la sua destinazione non era nei sette climi del mondo misurabile
dai sensi grossolani, ma nell’Ottavo Clima, oltre la montagna infuocata del
Purgatorio e, in finem, oltre la
spera che più larga gira.
mercoledì 30 ottobre 2013
Meditazione ai margini di un incidente domestico
La mente, la testa che scava
dentro di sé per restare aperta e sempre più aprirsi, rischia di diventare
spanata, così che il cacciavite celeste non riesce, per quanti sforzi faccia (e
quanti di essi potrebbero dare ragione di certe nostre turbinose cefalee), ad
estrarla finalmente verso l’alto.
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