Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 31 ottobre 2013

Dopo aver udito per la 7598889a volta un luogo comune infame






“Non ho mica la bacchetta magica!” dice l’uomo politico che, dopo aver promesso la Gerusalemme Celeste, finalmente eletto depone la tunica del profeta e indossa i grigi panni del funzionario severo e responsabile. Invece sì che hai la bacchetta magica!, occorre rispondergli: la verga di Hermes, il Caduceo, la chiama Epitteto, l’unica facoltà davvero pratica a questo mondo – l’immaginazione guidata dalla volontà spirituale. Se volessi cambiare quelle tre o quattro cose che distinguono un dolce ostello dalle ceneri di Sodoma, se anzi semplicemente le volessi con l’energia con cui da bambino volevi la luna (e non eri folle: sentivi che si può possederla in ictu oculi, e non si può mai raggiungerla), nel peggiore dei casi lasceresti un mondo segretamente incinto di Paradiso. Il punto è che non vuoi volere. Il punto è che usi la tua bacchetta magica solo per mutare in pietra te stesso e i tuoi compagni d’armi.

Aspettando Novembre




Tra i meravigliosi explicit della narrativa, quelli che hanno forza di katanyxis (Don Quijjote, Morte di Ivan Illich, Moby Dick, Processo), il più gloriosamente umile – gloria di crepuscolo ermetico – è quello del retore isiaco, la trasfigurazione, il ritorno di Lucio, intimamente svuotato, al foro, al mercato della sequenza zen: “Così, di nuovo, con i capelli completamente rasati, senza velare o coprire la calvizie, ma anzi mostrandola a tutti, mi dedicavo pieno di gioia ai doveri di quell’antichissimo collegio fondato dai tempi di Silla [Rursus denique quaqua raso capillo collegii vetustissimi et sub illis Syllae temporibus conditi munia, non obumbrato vel obtecto calvitio, sed quoquoversus obvio, gaudens obibam]”. L’ultima frase vuol dire anche: “Dovunque fossi diretto, vi andavo con gioia”, ma anche, il che è appunto unum et idem: “morivo pieno di gioia”.

Qualunque cosa si pensi di Tommaso d’Aquino (personalmente lo ritengo uno dei massimi mistici “sobri” del cristianesimo medievale), ogni libro di teologia dovrebbe iniziare come la Summa Theologiae, quaestio II, articulus 3: “Esiste Dio? Sembra di no”.

La regina Maria Antonietta, salendo i gradini che la separavano dalla Vedova, pestò il piede del boia Sanson e prontamente gli disse: “Signore, vi chiedo perdono, non l’ho fatto apposta”. L’ammiraglio Heihachirō Tōgō, il trionfatore di Tsushima, facendo visita al suo avversario, Rožestvenskij, bendato per le numerose ferite ricevute, si inchinò di fronte a lui e gli espresse il suo “profondo rincrescimento”. Se uno sconfitto o un vittorioso sono capaci di simile cortesia (ed è difficile per entrambi: si tratta di contrastare la rapinosa corrente della pesanteur), non sono né vittoriosi, né sconfitti: volano alto al di sopra delle fragili e caliginose contingenze della storia.

La parola di Dio è una spada a doppio taglio, dice l’autore della Lettera agli Ebrei. Proprio per questo non bisogna smussarne il filo con interpretazioni che tengano troppo distanti i due sposi, lo Spirito e la Lettera. “E i figli d’Israele servirono Eglon, re di Moab, per diciotto anni. Ma i figli d’Israele gridarono al Signore e il Signore fece sorgere per loro un salvatore, Ehud figlio di Gera, della tribù di Beniamino, un mancino; e i figli d’Israele mandarono per mezzo di lui un’offerta a Eglon re di Moab. Ed Ehud si fece una spada a due tagli, lunga un cubito, e se la cinse sotto la veste, al fianco destro. E portò l’offerta a Eglon re di Moab. Eglon era un uomo molto grasso. Quando ebbe terminato la presentazione, mandò via le persone che avevano portato l’offerta. Ma egli tornò indietro dalle cave che erano presso Gilgal e disse: ‘Ho una parola segreta per te, o re’. Questi gli disse: ‘Silenzio!’ e quanti stavano con lui uscirono. Allora Ehud si accostò a lui, che sedeva da solo nella Stanza della Frescura [il cesso], al piano di sopra. E disse Ehud: ‘Ho una parola di Dio per te’, e l’altro si alzò dalla seggetta. Allora Ehud allungò la mano sinistra, trasse la spada dal suo fianco destro e gliela infilò nel ventre. Anche l’elsa entrò dopo la lama, e il grasso si chiuse intorno alla lama. Così egli non tolse dal suo ventre la spada, che gli era uscita da dietro” (Giudici 3,14-22).

Leggendo Mulla Sadra





Mulla Sadra Shirazi dice che i maestri orientali e occidentali, quando parlavano di trasmigrazione delle anime (tanasukh), non intendevano la loro letterale dislocazione da un corpo fisico all’altro, ma la loro acquisizione di un corpo immaginale, sottile, corrispondente alle azioni e alle intenzioni della vita terrestre, di cui diventano consapevoli all’ingresso nella dimensione angelica del Malakut, l’“esoterico” della dimensione visibile-tangibile, il Mulk.
Così ci è forse offerta una chiave per comprendere l’eros immaginale degli antichi e soprattutto dei medievali, che sanzionavano fermamente l’adulterio, fisico e legalmente imputabile i pagani, anche fantasticato o interiormente nutrito i cristiani. L’“amore libero” moderno è letteralistico: ad ogni innamoramento segue un ‘cambio’ di corpo, la trasmigrazione (riduttivamente intesa) da una scena di vita all’altra, anzi, da una vita all’altra. Ma il trovatore medievale o l’erastes platonico sapevano che l’esistenza visibile è una sola ed è intessuta di riti, mentre il desiderio e la fede del cuore costruiscono il corpo dell’altro mondo, del mondo immaginale: l’amore ‘altro’ non conduceva necessariamente al dilemma dell’appagamento adulterino o della sterile repressione, perché la sua destinazione non era nei sette climi del mondo misurabile dai sensi grossolani, ma nell’Ottavo Clima, oltre la montagna infuocata del Purgatorio e, in finem, oltre la spera che più larga gira.

mercoledì 30 ottobre 2013

Meditazione ai margini di un incidente domestico




La mente, la testa che scava dentro di sé per restare aperta e sempre più aprirsi, rischia di diventare spanata, così che il cacciavite celeste non riesce, per quanti sforzi faccia (e quanti di essi potrebbero dare ragione di certe nostre turbinose cefalee), ad estrarla finalmente verso l’alto.