Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 11 novembre 2013

Da un carteggio sulla religione





Ovviamente non si può trovare risposta alla domanda sulla propria religione al di fuori della ‘giustezza’ di un destino, della costituzione e della necessità di un daimon. Qual è la nostra tradizione? Quella cristiana, non c’è dubbio: e tuttavia grandi profeti minori (non è un ossimoro) come Benjamin, Illich, Ellul e Quinzio hanno visto benissimo che non stiamo camminando nel vuoto, non siamo nella posizione di chi assista ad una lunga decomposizione da una torre d’avorio o di cemento; non siamo in un tempo post-cristiano ma, come dici tu, in un tempo apocalittico, tempo di disvelamento del mysterium iniquitatis cui accenna il Nuovo Testamento. Possiamo chiamarla l’Ombra del kerygma cristiano, possiamo chiamarla, con Illich, la corruptio optimi: resta il fatto che ciascuno di noi viene iniziato, sin dall’infanzia, sin dal grembo materno, alla religione del tecnocapitalismo, l’unica religione esclusivamente rituale della storia, come rivela Benjamin e come suggerisce Chesterton. È vero che in ogni epoca l’iniziato doveva disimparare molto per accedere alla liberazione: ma oggi la prima parte di ogni itinerario iniziatico, il katharmos, la purificazione, è purificazione da un sistema (come lo chiama Ellul) capace di una invasività, di una capillarità, di un totalitarismo impensabile per tutti i nostri antenati. Tale scoperta non ci toglie la speranza: la speranza fiorisce solo nella disperazione, e Chesterton insegna che san Giorgio può combattere il drago anche se il drago ha assunto le dimensioni dell’universo intero; si può essere in lotta con il mondo e in pace con l’universo, aggiunge. Sicuramente ci toglie ogni sicurezza, ogni aspettativa, e in un’epoca d’ansia, di panico muto e servile e di richieste di assicurazione, di tutela, di garanzia, si tratta di una spoliazione tragica e gioiosa al contempo. Certo, l’iniziazione è comunitaria: ma la comunità non si identifica con un gruppo visibile; ognuno è comunità, ognuno dice “Padre nostro”, ognuno è Chiesa. In tempi apocalittici, di dispersione tra le macerie pericolanti e fumanti, Illich dice che occorre far rifiorire la virtù dell’amicizia attraverso la conspiratio, la mescolanza dei fiati che plasma la comunità cristiana delle origini. In tempi apocalittici, occorre tutto ricordare e tutto dimenticare: celebrare di nuovo gli inizi, e sapere che è quasi impossibile, nella Roma del 2013. Poi, come escludere che qualcuno cerchi e trovi il proprio sentiero al Cairo, a Isfahan, a Katmandu, a Lhasa? Ma non se ne può parlare. È come chiedere: di quale donna mi innamorerò? Se qualcuno mi facesse una domanda così folle, io potrei solo rispondergli: Non lo so, posso solo  consigliarti, qualunque donna amerai, di amarla come immagine dell’universo e non come un possesso e un idolo.


Per il resto, in Occidente ci sono solo frantumi di cammini iniziatici, di antichi pellegrinaggi: da molti secoli siamo un paesaggio di rovine, siamo abituati a viverci dentro, a passeggiarci accanto; con questi frammenti i nuovi demiurghi (si parla di noi, ovviamente) hanno costruito un mondo nuovo. Se non si nasce in una famiglia tradizionale o non si incontrano precocemente persone avvinte ad una tradizione – riti, ritiri, pellegrinaggi, tecniche di preghiera, di meditazione, consigli, racconti soprattutto – non c’è che ricordarsi della propria infanzia, di quando si è visto, anche solo per un istante, che le fiabe sono belle perché la vita è una fiaba, una queste cavalleresca, come insegna Chesterton. In una fiaba l’eroe può trascorrere anche l’intera vita nell’aridità, pietrificato da un incantesimo maligno, asservito ad un orco antropofago o a una strega morbidamente crudele: se attende bene, se non lascia che la brace del suo cuore sia soffocata dalla cenere, la scintilla scocca, il fuoco centrale ricomincia a guizzare e crepitare. La fiaba non è altro che il residuo vivente – brano di carne palpitante, anzi esserino di carne spirituale con una sua integrità misteriosa – di un tempo in cui la sapienza era l’orizzonte dell’umile vita: consegnare una fiaba ad un bambino è lanciargli una palla su cui è tracciata la mappa del tesoro; nell’istante prima di rilanciarla al genitore, può scorgerla in un istante eterno, decidere oscuramente di dedicare la vita a recuperarla, e quindi a disseppellire l’antica ricchezza. Convertirsi è ritornare: teshuvah, dicono gli ebrei, epistrofè i greci; tornare ad un’infanzia non freudiana, forse mai vissuta (“a me le fiabe non le ha mai raccontate nessuno!”), tornare a ciò che ci tiene sul sentiero senza che noi ci pensiamo mai – le mute certezze, i presupposti incrollabili, il respiro, il corpo, il senso dell’animo del Plotino leopardiano, la lingua materna dell’anima ritrovata da Kostja Levin, la morale delle fiabe custodita nel cuore da Chesterton. Il resto è avventura, oggi più che mai. Un’avventura che può finire in casa propria, a Roma, Italia, o in una khanqa sufi dell’Asia Centrale – o magari in qualche strano purgatorio terrestre, un ospedale, una guerra, una lunga follia. Not fare well, but fare forward, voyagers. L’unica cosa che resti di un’esistenza umana, è il voto: voto cavalleresco, monastico, voto d’amicizia, voto nuziale, poco importa. Il voto è la condizione dell’avventura, dell’iniziazione: l’iniziazione e l’avventura custodiscono, e realizzano, il voto. Perché, se essere iniziati è morire, fare un voto è essere consapevoli che la vita è brevissima, come una bolla, come un battere di ciglia, dicono i cari antichi: e non è un caso che l’esistenza contemporanea, con la sua insistenza sulla longevità, sulle mille scelte che possiamo compiere, sulla libertà di iniziativa etc., sia di fatto un’immensa congiura per rendere quasi impossibile l’antica arte umana di legarsi volontariamente affinché la Grazia possa compiere la sua opera liberatrice.

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