Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 30 dicembre 2014

Considerazioni sul Parmenide di Peter Kingsley





Kore-Persefone è Aletheia. È tutt’uno (tautò) con Afrodite, dea della manifestazione e dell’inganno, māyā-apate. La colomba appartiene ad entrambe come animale dell’albedo, dell’intelligenza spirituale, della pace tra corpo e spirito.
In Apuleio la bellezza di Venere è custodita nella pisside di Proserpina, in fondo all’Hades, l’Invisibile. Persefone-Verità (o Disvelamento, Manifestazione) è senza nomi, dunque è la Nominatrice: in lei si uniscono indissolubilmente il tanzīh, la negazione apofatica, e il tashbīh, l’analogia e partecipazione catafatica.
La falce lunare della morte taglia il ‘mondo’, la sua apparente continuità, in istanti, teofanie. Così la freccia di Zenone è congelata, eterna in ogni istante: la kinesis, il movimento, è l’esperienza della mente desiderante, proiettata all’esterno. È la schiuma marina di Afrodite a suscitare l’inganno (apate) della continuità.
Kore è l’anima in quanto ātman. È autokinēton, muove se stessa, ma anche akinēton, immobile, nell’istante eterno.
Le due vie di Parmenide sono: esti (via di Peithò, persuasione, conduce da Afrodite a Persefone; la philotes o amicizia cosmica di Empedocle); ouk esti (via della distruzione dialettica; Zenone, il neikos di Empedocle come lotta che consuma se stessa, negazione che si nega). La terza via non è una via, è lo sbandamento ordinario dei dikranoi, gli esseri con due teste.
I chicchi di melagrana sono la vera continuità di mētis, la saggezza che è la non-dualità di Persefone e Afrodite, Psiche e Venere, Biancaneve e Regina. Chicco è rhoià, come Rhea, il continuum della materia. Come in alto, così in basso.
La mētis di Parmenide è la maat egizia. Il navigante ermetico, kybernētēs, timoniere, l’Odisseo dalle mille peripezie, è polymētis, ricco di mētis, ha una mētis molteplice, capace di penetrare e ridurre a uno la molteplicità. Si tratta di una sapienza tellurica e lunare insieme, sottile, magica – la shakti del sapiente.
L’eon sferico di Parmenide è l’ōon, l’uovo orfico, come la Binah kabbalistica, utero divino, e l’hiranyagharba vedico, embrione-utero aureo. Il tajallī, la teofania originaria, è quella dei Nomi, divini e creaturali, i Possibili: l’esti greco significa “è” ed “è possibile”. Dove non c’è potenzialità-mutamento, kinēsis, posse ed est sono uno (Cusano).

Oscar Milosz e Parmenide. L’amore del movimento-kinēsis è il pensiero, il getto di sangue-seme originario, Kāma-Eros Protogonos, Afrodite. Sono dati simultaneamente movimento, materia, spazio-tempo. La necessità di situare in un luogo sicuro (identificazione egoica e correlativo ‘mondo esterno’) è dovuta alla paura-stupore-smarrimento primordiali. La si vince scoprendo che l’unico “luogo sicuro” è il cuore, centro solare dell’uomo, quando l’infinito materiale è colto (dunque delimitato in actu) come istante immobile, unità. Si spegne il bisogno di localizzare, il desiderio ritorna a se stesso, il mondo sorge dal-nel cuore.
Il mercurio-sangue viene fissato nel cuore-oro. Il tutto, l’istante presente come uovo, mela, perla, embrione-utero, palla dei giochi di Zagreo. Persefone-Aletheia come Maria-Sofia, albedo dell’illuminazione. L’immortalità è l’unione di questa regina lunare con il re solare, lo zolfo della volontà magica risorta dalle ceneri del corpo attraverso il bagno-utero del mercurio.

sabato 27 dicembre 2014

L’Impero e l’albedo




Crescente e stella: simbolo del Vicino Oriente devoto della Dea; tramite i persiani arriva a Bisanzio, città di Ecate la maga, dea lunare dei trivi (la luna nuova, oscura).
Il crescente di luna è Diana, la albedo della illuminazione che inizia alla regalità, al dominio: le acque inferiori vengono fissate, appare l’argento della consapevolezza libera da spazio e tempo. La luna di Malkut, della sovranità, viene seguita immediatamente dalla stella del mattino, Lucifero-Venere, portatrice della viriditas, della fioritura di vita vegetativa, plastica e immaginativa. È l’Aurora Consurgens, l’Equinozio di Primavera eterno, l’incipit vita nova dell’incontro con la Dama. Nella Roma cristiana, teocratica, il simbolo viene reso esplicito, esibito: la Donna che tiene la luna, le acque, sotto i piedi ed è ammantata di stelle – dominio del divenire, del mutamento, del serpente, della falce saturnia del tempo sublunare. Nella Roma pagana il tema resta velato nel mito di fondazione: ostilità di Luna e Venere, Giunone-Taanit, protettrice di Cartagine, e la madre di Enea, protettrice di Troia. La falce lunare è quella di Saturnus, che si è nascosto nel Lazio (Latium a latendo): dio del sat, ipotizza Reghini, della pienezza aurea, e insieme della caduta nel Tartaro del corpo fisico. Bisanzio è la Seconda Roma, cristiana ma imperiale, che riprende lo stendardo della Dea: non più Ecate ma la Vergine, anche se le figure femminili della mitografia imperiale avranno sovente tratti di prostituta e fattucchiera. I turchi poi, forse anche memori del loro passato remoto di adoratori della Dea, assumono l’insegna islamizzandola: l’hilal del mese lunare, del Ramadan; la stella del mattino come annuncio profetico, Colui che viene di notte, al-Ṭāriq. Islam lex Veneris: l’aldilà corposo, l’immaginazione creatrice, teofanica. Terza Roma, Mosca: dopo la Rivoluzione di Ottobre, la falce lunare di Saturno agricoltore, la stella che annuncia il Sole dell’Avvenire, in più il martello della forgia di Vulcano. L’impero emerge dalle acque, dalla notte della guerra civile, è imbiancamento del cuore che fa verdeggiare la terra: tutto fiorisce, si sviluppa, le potenze esultano nella primavera dell’espressione liberata. La pace imperiale (proprio come la pienezza ebraica, shalom) dona la felicitas terrena, riconduce al paradiso terrestre (la Matelda di Dante): è la sublimazione della terra, ottenuta facendo volare le aquile, uccelli di Giove, e le colombe, uccelli di Venere. Nel Triomphe Hermétique è scritto: Sydera Veneris et corniculatae Dianae tibi propitia sunto: la stella del mattino e il crescente. Spirito e corpo si congiungono, le loro nozze sono l’equinozio dominato dall’Ariete, ovvero dallo zolfo sepolto nel corpo come Lucifero, visio smaragdina della gloria arcangelica, è conficcato al centro della Terra.
Malkut è luna e terra, Dama che si offre all’eroe, candidato alla regalità. La Sposa celeste è una Venere che conferisce la capacità di vinculatio, la magia erotica dell’impero: ma è anche una Diana ritrosa, che contemplata nel suo occulto splendore rende cervi gli Atteoni, prede i grandi cacciatori – ovvero ne fa esseri sovrumani, che complicano in sé i contrari, assimilano l’energia immane della sconfitta, dell’annichilazione, della spoliazione, rinascono da acqua e spirito.

mercoledì 24 dicembre 2014

Sul cuore del dolore, qualche anno fa




Caro amico,

Laozi insegna che il Cielo e la Terra (e il santo, che si conforma al loro agire scevro di ego, wu-wei) sono privi di “umanità” (la somma virtù confuciana): trattano le diecimila creature come i cani di paglia del sacrificio, che durante le cerimonie vengono colmati di onori per poi finire calpestati e gettati via come immondizia comune. In un altro passo giustamente scopriamo che questa assenza di umanità è la suprema umanità, la bontà che discende imparzialmente sulle diecimila creature come il sole e la pioggia del discorso evangelico tanto amato da Simone Weil. Il punto è che il Bene è la Realtà stessa in quanto desiderabile, in quanto meta della volontà, oggetto e consumazione dell’amore: ma appunto in itinere, per me, è sempre anche oggetto, e quindi anche non-bene e non-realtà. Agendo in quanto esseri limitati non possiamo non rappresentarci il fine buono, e così facendo lo contaminiamo: la consolazione è questa impossibilità di uno sguardo totalmente semplice, veramente-realmente semplice. In questo senso, finché siamo in cammino la consolazione è necessaria: ma Platone ricorda quanto siano lontane la natura della necessità e quella del bene, con parole mille volte commentate dalla nostra Santa degli Sradicati. Secondo la tradizione cristiana, solo Gesù sperimentò (sperimenta) l’assenza di consolazione, nel Gethsemani e sul Golgotha, e quindi attinge, per natura e obbedienza, la purezza massima dello sguardo, la trasparenza perfetta nel patimento che si fa glorioso.
Quando si parla di Provvidenza non si può non ritornare a Giobbe – almeno, io non posso farne a meno. Ricordo ancora l’emozione che accompagnò la mia prima lettura delle finali parole di liberazione: Ti conoscevo tramite l’udito, per sentito dire – ma ora i miei occhi ti hanno visto – per questo mi pento e mi consolo sulla polvere e sulla cenere. Più volte ho discusso di questi versetti con C***: lui mi ha detto, e poi ha scritto in un suo libro, che dopo le parole sue e degli amici, dopo l’ascolto della fede e dell’obbedienza ai comandamenti, dopo la ribellione che si fa atto d’accusa, chiamata in giudizio, Giobbe assiste alla brutale e rinfrescante teofania di Dio, quasi una processione dionisiaco-eleusina di cerve, struzzi, leoni, coccodrilli (il cui silenzio – silenzio del logos, della parola umana – è accompagnato da un verbo che non lo viola, il verbo divino condensato in quelle maestose interrogazioni, in quelle provocazioni regali e paterne), e vede Dio nelle sue opere, vede il mistero della incomprensibile manifestazione divina nell’assalto del leone e nel terrore del cervo, nella bellezza dei corpi e nella fragile perfezione delle infinite esistenze creaturali. Io credo che abbia visto Dio coi suoi occhi proprio in questo senso – il mistero manifesto, l’avventura ontologica di Chesterton e il pulcherrimum nihil di Silesio –  ma che ciò vada inteso proprio come lo svelarsi della misericordia divina, la sua Provvidenza che è la sua amorosa conoscenza di sé. Dio si guarda in uno specchio, come Zagreo: Dio era un tesoro nascosto, e ha amato essere conosciuto, come Allah racconta di sé nel hadith. Dio è incomprensibilmente la maestà atroce del Leviatano e la tenerezza ancor più atroce del vitellino che fa due passi fuori dall’utero e viene sbranato dal Leviatano.
Ricordo anche che l’emozione del finale del Libro di Giobbe ritornò, qualche anno più tardi, quando scoprii quel commento vedantico a un passo cruciale della Gita: Ishvara stesso è colui che trasmigra. Io non sono Dio, l’agnellino non è Dio, il Leviatano non è Dio, ma questa distanza non è fuori da Dio – è la sua trasmigrazione, la sua discesa, la sua croce. Lui mi sta di fronte nel mistero – il mistero del suo nascondimento e della sua teofania – ma io non sono altro che/da Lui. Questa è la semplicità dello sguardo, che nel suo senso più forte e più alto ci è preclusa, e ci è preclusa proprio perché ci fonda, ci costituisce. Noi siamo solitamente inconsapevoli del respiro, e quasi ininterrottamente della vita vegetativa del corpo, e delle motivazioni profonde del nostro agire: infinitamente di più lo siamo di ciò che è semplice, l’essere, il nostro radicamento in Dio, quella provvidenza per cui abbiamo voluto essere chi siamo e ad ogni istante rinnoviamo la ribellione, l’oblio, la distanza da quell’assenso originario di cui parla il Corano.
Semplice è Giobbe: semplice è Gesù che grida di dolore nella totale conformità al proprio destino divino. Semplice è anche (senza però esser passato per il crogiolo della doppiezza e della costruzione delle proprie maschere) il bambino molto piccolo, che protesta ed esige e piange e ride senza porsi di fronte al proprio fondamento, senza trattarlo come un oggetto, senza mettere in dubbio la trasparenza angelica dell’universo. Semplice è chi sa che tutto ciò che accade gli appartiene, lo riguarda, e se si rappresenta una provvidenza, una meta buona e assoluta, è consapevole che occhio non vide e orecchio non udì quel che ci attende, quel che già è in ogni istante della nostra esistenza. Semplice è chi non confonde: per questo maestri di semplicità sono gli ebrei, che litigano con Dio per amore e per diritto di nascita. Semplice è chi dice, come Gesù sulla croce, Ho sete quando ha sete: che non costruisce teodicee per giustificare Dio, come gli amici di Giobbe, e non idolatra neanche il mistero, l’onnipotenza di Dio, perché Ishvara stesso è colui che trasmigra.

P. S. Quasi tutti gli eventi della vita di Simone sono sfiorati da un velo di comicità tenera e terribile, come l’ala delicata e ben costrutta di un insetto bellissimo. Penso a quando, durante la famosa vendemmia nel contado francese, ospite di un amico cattolico, lavava i piatti (lo faceva come se stesse manipolando gli strumenti liturgici nella proskomidia bizantina, ed era un metodo assai lento e assai inefficiente) e parlava di Dio: “In cielo avremo tutte le perfezioni”. L’amico le rispose ridendo: “Quindi mia moglie sarà intelligente e tu saprai lavare i piatti”. Si prese un solennissimo schiaffo.

venerdì 19 dicembre 2014

Sull’Eucaristia (di Franz Xaver von Baader)




La creatura ci consente di vedere all’opera il suo principio creatore sia nella sua conservazione che nella sua nascita. Infatti mantenere l’esistenza, ovvero la vita separata, non è in verità altro che continuare a donarla.
Il Cristo, dicendo “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in Me e Io in lui”, ha rivelato con grande chiarezza che la nutrizione alimentare è la condizione sine qua non del rapporto reciproco di vita e di conservazione sussistente tra l’essere creato e conservato e il suo principio creatore e conservatore: questo rapporto, facendo sì che l’uno possa esistere nell’altro (“io in voi, e voi in me”, in quanto ogni sostanziazione si realizza sempre reciprocamente tra due fattori divenuti uno solo), si spezzerebbe qualora tale legame (comunione di vita attraverso la nutrizione) non esistesse. Infatti il cibo ci attira verso la – e ci fissa (sostanzia) nella – regione o elemento da cui esso proviene a questo fine; e come per suo mezzo possiamo amalgamarci a (sostanziarci in) quella regione, così ci è permesso di uscirne attraverso l’astinenza (1).
L’uomo primitivo era destinato a fissarsi, per mezzo del cibo paradisiaco, nella regione superiore, e ad assicurarsi (sostanziare) per suo mezzo la propria dimora al di sopra (all’interno) della regione inferiore (temporale, o astrale-elementare) e dominarla, Gn 1, 28 (2).
Ma fu tentato dalla regione inferiore (non paradisiaca) a incorporarsi (sostanziarsi) ad essa e, cedendo a tale tentazione, cadde realmente da una regione superiore a una inferiore, ovvero in questo mondo, che ha cessato di essere esterno (periferico) in relazione all’uomo, mentre invece fu il mondo superiore a diventare, in virtù di questo atto, esterno per lui; cosicché la caduta dell’uomo produsse nell’uno e nell’altro mondo (in relazione all’uomo) una trasposizione contro natura (3).
La Bibbia ci rappresenta questa regione (inizialmente inferiore rispetto all’uomo) con l’immagine dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché in essa il male e il bene si trovano in opposizione perpetua, essendovi collocati l’uno accanto all’altro invece che l’uno al di sopra dell’altro. E la stessa Bibbia ci rappresenta le influenze di questa regione mista come talmente narcotiche che l’uomo, aprendo l’anima alla sua attrazione, diventa un sonnambulo. Per questo il sonno segnalò la morte della vita superiore nell’uomo e il primo passo verso la sua materializzazione inferiore (4).
Se dunque la Bibbia ci insegna che l’uomo si è perduto mangiando di quell’albero, i teologi avrebbero dovuto mostrarci la Santa Cena come ciò che appunto produce un effetto contrario a quello del primo pasto, che in verità noi ripetiamo ogni giorno mettendo tutta la nostra anima in questo mondo inferiore (sia nelle sue gioie, sia nelle sue angosce) (5).
Come la nutrizione mantiene i rapporti attivi della creatura isolata con il suo principio creatore, così numerose creature, partecipando allo stesso pasto, si uniscono tra loro per formare un vincolo intimo, un vero sistema organico, di cui il principio nutritore e unificante è il Capo, ovvero: un Corpo di cui egli è la Testa. È un solo pane che ci nutre, dice l’Apostolo, perciò noi siamo un solo corpo. Ed è così che propriamente si spiega il senso della parola comunione (unione di vita) – da cui: agapi, pasti d’amore – ed è per questa stessa ragione che s. Paolo non permette di mangiare (questo pasto) con un uomo corrotto, 1Cor 5,11.
Perciò i teologi, se avessero paragonato il Mistero dell’Eucaristia con quello celato nel processo nutritivo in generale, avrebbero fortificato la nostra fede, sviluppando la nostra comprensione invece di sopprimerla, e quanto segue spero serva a provare la verità di questa asserzione.

St. Martin dice (nel Ministero dell’Uomo-Spirito): “Voi vedete che un semplice desiderio animale, come la fame, mira a stabilire l’equilibrio tra la natura e il nostro corpo elementare, così da rendere questo corpo capace di manifestare tutte le meraviglie (misteri) elementari, o le proprietà corporee di cui l’ha composto la natura, in quanto è l’estratto (il figlio) di questa natura. Cosa non dovremmo dunque aspettarci da questo stesso desiderio proiettato su un altro piano dell‘essere, e da questo bisogno sacro da cui la fonte suprema ha composto la nostra essenza?”.

Da ciò segue chiaramente che la sostanziazione della creatura nutrita nel e dal suo principio (elemento) nutritore avviene con l’elaborazione del cibo (vale a dire che la funzione dell’organo sostanzia l’organo, o la forza si nutre attraverso l’azione), e se il principio che nutre la creatura, donandole una parte o un estratto di sé, la serve, si aspetta a sua volta un servizio da lei, un ritorno, perché il dono del cibo deve agire all’esterno (per mezzo della creatura) trasformandosi in forze sviluppate che, come i raggi di uno specchio, ritornano al principio nutritore; sicché si può dire che quest’ultimo si nutre grazie a questo ritorno, e nel suo modo peculiare: ritorno attivo e vivente, senza il quale non ci sarebbe equilibrio tra ciascun principio nutritore e la sua creatura, e senza il quale né la creazione, né la conservazione di questa sarebbero pensabili (6).
Sappiamo che l’elaborazione del cibo avviene attraverso il fuoco. E il fuoco dell’anima eterna (radice vivente della creatura) possiede davvero, come il fuoco dell’anima temporale, questo potere meraviglioso di risvegliare la vita, o di innalzare ai propri poteri tutto ciò che gli si accosta, o che entra in uno stato impotente di radice o di germe, per trasmutare la materia in spirito. – Per questo vediamo sia il cielo che l’inferno sollecitare e corteggiare, per così dire, l’anima umana, per passare attraverso essa e il suo calore vivificante (di cova) dallo stato di germe a quello di fioritura! – Il principio nutritore superiore, facendosi, per così dire, materia e cibo, si spoglia dei suoi poteri, sospende e abbandona la propria esistenza sviluppata: per questo il principio dell’amore materno che alimenta e nutre è al tempo stesso quello che dona il corpo e lo conserva, o sostanzia. L’amore scende, dice il proverbio (7).
Ma se l’amore scende, attende appunto la sua riascesa dalla creatura, alla quale affida o sottomette la sua sostanza come un germe, e se la parola (perché la parola o verbo è la madre di famiglia) diviene carne donandosi come cibo, è per ridivenire spirito attraverso la creatura, ed è soprattutto all’uomo che vuole essere debitrice, per così dire, di questa resurrezione. – Che tenerezza, che generosità, ma anche che rischio, per l’amore! Purtroppo infatti l’uomo può ingannare questa attesa giusta e dolce, può impedire questa glorificazione della parola (che la Bibbia molto spesso chiama germe divino, 1Gv 3,9), distogliendo da lei il fuoco vivificante della propria anima, il soffio della propria volontà. L’uomo, questo sventurato, può fare in modo che la parola ritorni da lui vuota e senza frutto, Is 55,11. Può far produrre al fuoco della sua anima maledizioni invece che benedizioni, e uno spirito di tenebre invece che uno spirito di luce. Infine lui solo ha il terribile potere di arrestare (nella propria anima), come dice l’Apostolo, “lo sviluppo della verità” per il quale il cielo l’ha inviato sulla terra, e invece di provare l’esistenza di un Dio giusto e buono, lui solo può provare e dimostrare l’esistenza dell’inferno (8).
Se noi siamo precisamente ciò che mangiamo, allo stesso modo mangiamo solo ciò che siamo, ovvero separiamo da ciascun alimento e vivifichiamo (innalziamo nel nostro Spirito di Vita) solo la qualità analoga che già vive in noi. Giuda mangiò la propria condanna e la morte dallo stesso pane e dalla stessa coppa di Nostro Signore che diedero la vita agli altri apostoli, ed è in questo modo che i malvagi si comunicano ancora tutti i giorni, simili al rospo che succhia veleno anche dal miele, e come tra le piante il giglio e la cicuta traggono l’uno i suoi profumi e l’altra i suoi veleni dalla stessa terra e dallo stesso sole. In verità tutto ciò che ci dispensa il cibo (come ad es. la terra e il sole) sembra dirci: “Prendete e mangiate (i miei raggi, i miei succhi o forze), questo sono io, è la mia sostanza, il mio corpo e la mia anima (sangue) che io vi do sotto forma di germe, di radice, affinché voi me lo restituiate sviluppato e dotato di potere attivo”. – E la luce che da questa intuizione si diffonde sulle famose parole del Cristo diviene più viva quando ricordiamo che egli chiama se stesso la Testa del corpo che gli uomini riuniti devono formare in lui e attraverso di lui, e che di conseguenza qui si parla della nutrizione di un sistema organico attraverso il suo Centro, cioè il suo Sole, e non della nutrizione di un individuo isolato attraverso i resti di un altro individuo. Quest’ultimo è il senso grossolano dell’alimentazione, che gli ebrei hanno voluto applicare alle parole del Cristo e che molti cristiani condannano senza saper applicare a queste parole di spirito e vita un senso più degno e più vero (9).
Poiché l’uomo è il vero microcosmo ed è collegato per sua natura ad entrambi i mondi, la sua rigenerazione non può realizzarsi senza una corrispondente riparazione di questi due mondi, e il riparatore dell’uomo dev’esserlo anche dei due mondi. È per questo che la Bibbia parla di un nuovo cielo e di una nuova terra come parla di un uomo nuovo, perché l’uno non può formarsi senza gli altri. Ma poiché questo mondo inferiore è misto, bisogna presumere che l’opera della rigenerazione sia distribuita fra gli esseri o sostanze di questo mondo come fra i diversi organi di un corpo, cosicché alcune fra le sostanze si riveleranno partecipare a quest’opera più di altre, in quanto ordinate specificamente ad essa (10).
Il Cristo vuole che durante l’atto alimentare esteriore dell’uomo esteriore ci ricordiamo dell’atto alimentare interiore dell’uomo interiore e immortale, che ha o dovrebbe aver luogo simultaneamente al primo, sebbene nel suo ordine e in modo impalpabile per l’uomo esteriore. Vuole che richiamiamo alla memoria la sua presenza, nascosta ma assai efficace, come un centro invisibile che ci lega e nutre in quanto sue membra e suo corpo, che un giorno apparirà nella sua gloria come il corpo individuale del Cristo è apparso dopo la sua resurrezione! Vuole infine che mangiando il nostro pane e bevendo il nostro vino annunciamo la sua morte terrestre, perché questa  morte fu la condizione necessaria per il suo innalzamento come Testa e Centro del corpo futuro, che egli attira a sé dal tempo del suo innalzamento fino ad oggi, come il sole attira la pianta fuori dalla regione tenebrosa della terra (11).
Tutti i popoli dell’antichità hanno avuto la chiara consapevolezza o il sentimento oscuro del rapporto invisibile, ma sensibile, che si forma o cerca di formarsi tra coloro che mangiano insieme. Presso i Greci (come ci dice Omero) se un uomo ne aveva accolto un altro in casa sua come ospite, in seguito lo evitava durante la battaglia; e presso molti popoli antichi si trovano ancora delle tracce che provano come presentissero nei loro pasti un atto di comunione della vita, appartenente a un ordine superiore. La parola cena per gli Ebrei ha la stessa radice della parola santo o consacrare (sacrificare): e la preghiera e la benedizione prima del pasto sono ancora rispettate presso popoli meno corrotti (come i Russi), e tali benedizioni sono in fondo ciò che dovrebbero essere le vere consacrazioni (12).
Infine l’uomo era destinato in origine a nutrirsi e riprodursi in modo paradisiaco. Ora, dopo la caduta, è obbligato a conformarsi in queste cose agli animali della terra. Non bisogna dunque stupirsi se, ricordando la propria dignità e la propria gloria primitiva con vergogna e amarezza, vuole che il pasto e le nozze siano sacri. – Ed è qui che si cercherà con successo la chiave del mistero dell’Eucaristia, che come tutti i misteri della nostra religione è un mistero d’amore (13).

Note

(1) Perciò tale astinenza viene giustamente chiamata mortificazione. Non c’è dolore senza che si produca la separazione di una continuità (dolor solutio continui) e non c’è piacere (godimento) senza che si produca una continuità o unione (comunione, crescita); e “come questo mondo esteriore è entrato nell’uomo attraverso il piacere, è necessario che ne esca attraverso lo strazio”. Ecco il vero senso e finalità della Croce del cristiano, e la ragione per cui l’uomo nuovo, interiore (che è propriamente l’uomo primitivo), non può crescere senza che l’uomo vecchio deperisca. La lettera uccide lo spirito quando vuole vivere in modo autonomo, e lo spirito si risveglia solo uccidendo questo tipo di lettera.
(2) I naturalisti proseguono con entusiasmo le loro ricerche sugli esseri primitivi della natura, ad es. sugli animali primitivi, soprattutto quelli che hanno subito una metamorfosi marcata, e la storia degli esseri naturali è divenuta una scienza separata da quella della loro descrizione. Ma di tutte le creature visibili è sicuramente l’uomo ad aver subito la più grande metamorfosi, e le ricerche sull’uomo primitivo hanno cominciato da qualche tempo a ridiventare più incalzanti, perché si inizia a provare vergogna per quell’opinione vile e avvilente, che ha voluto identificare l’uomo primitivo con l’uomo selvaggio (degradato allo stato bestiale e bruto).
(3) Si potrebbe paragonare questa trasposizione, che si estese fino alle parti più minute dell’uno e dell’altro mondo, a una lussazione che mantiene entrambi i mondi in uno stato di sofferenza (Rm 8,19). Per l’uomo dunque, dopo che si è sostanziato in questo mondo inferiore e misto, quest’ultimo è divenuto reale o sostanziale, mentre sarebbe dovuto restare per lui eternamente apparente in modo magico (o simbolico); come viceversa il mondo superiore, con cui l’uomo trascurò di sostanziarsi, è divenuto per lui simbolo o apparenza. Da questa considerazione semplice e naturale segue che tutte le dispute sulla realtà o la non-realtà dei due mondi non possono essere risolte a fondo se non dalla pratica (buona o cattiva) dell’uomo. Nel momento presente, e finché sussiste la sostanzializzazione dell’uomo nel mondo inferiore, è chiaro che l’uomo non può vedere il mondo superiore se non in modo simbolico (secondo l’espressione della Bibbia, in ispirito o come in sogno), mentre dopo la morte terrestre vedrà come un simbolo o come in sogno il mondo terrestre e tutte le sue relazioni con lui. L’immagine simbolica di questo mondo resterà in eterno, anche se la sua sostanza viene distrutta, 1Gv 2,17. E la coscienza duplice, ovvero quella dei due mondi, che in ultima analisi si trova in ciascuno di noi, seguirà l’uomo nella sua vita futura, con questa sola differenza: che tutto ciò che ora si trova nella sua coscienza in forma simbolica, allora vi si troverà come realtà o sostanza, e al contrario ciò che ora vi si trova in forma di sostanza, non vi sarà più se non come immagine simbolica. – Ma è un pregiudizio radicale degli uomini pensare che ciò che chiamano “mondo” sia una cosa bella e pronta per l’uomo, ed esista anche senza di lui, come una casa già costruita in cui non deve far altro che entrare; invece questo mondo è un edificio in costruzione, il cui muratore è proprio l’uomo e che cresce solo con lui, Ef 2,21-22.
(4) I saggi riconoscono in questa materializzazione inferiore l’effetto della traslocazione di un principio divino o di luce rispetto a quello della natura: vale a dire tramite un’introversione del principio di luce e un’estroversione di quello della natura, così come la chiarificazione della creatura (che propriamente è il suo compimento) avviene tramite l’estroversione della luce, che si realizza a sua volta tramite l’introversione (o il sacrificio) del principio naturale. Del resto occorre osservare che un essere attivo come l’uomo apre la sua anima a un’attrazione solo nella misura in cui si lascia afferrare da questa forza attraente, ovvero nella misura in cui si rende afferrabile (passivo) per essa, o (per così dire) materia in cui il principio attraente possa imprimere la sua forma (la sua immagine).
(5) Mettendo la nostra anima in esso noi la perdiamo ogni volta, per questo si può dire che ci troviamo in questo mondo misto sotto il potere di un essere “che non cessa di mangiare la nostra carne e di bere il nostro sangue (anima)”.
(6) Questo ritorno è l’interesse che il Padre di famiglia, secondo la Bibbia, attende da colui al quale ha affidato i suoi talenti. Ecco perché i saggi dicono che ogni figlio è destinato a ricreare suo padre e l’intera creazione ha come fine la ricreazione del Principio creatore. La Bibbia parla anche del riposo del creatore nella sua creatura, ma ogni riposo è l’effetto di un ritorno, e come lo spirito creatore esce, per così dire, donando e conservando l’esistenza alla creatura, spetta a questa, nella misura in cui è veramente attiva (o libera), di farlo rientrare.
(7) Qualsiasi essere superiore è, in quanto tale, inafferrabile per e da parte di un essere inferiore: quest’ultimo non può afferrarlo (sia nei suoi sensi, sia nel suo cuore, sia nel suo spirito) se non nella misura in cui il primo scende verso di lui. Ma scendere (donarsi) si chiama qui allentare la propria attività, farsi radice, e fare, per così dire, un passo verso la propria materializzazione. – Ad esempio: il fuoco-principio è invisibile (inafferrabile) per la capacità visiva, a meno che non scenda e non diventi luce in virtù di questa discesa. (Infatti la sostanziazione del fuoco-principio si produce, come ogni altra, attraverso l’unione di due fattori, di cui uno si trova all’esterno e l’altro all’interno della materia infiammabile). – Viceversa: un essere inferiore dev’essere innalzato (ai suoi poteri) o ascendere per entrare in contatto con il proprio essere superiore. Di qui si intuisce perché l’apparizione della luce sia il primo passo verso la creazione o la sostanzializzazione, perché l’amore e la luce siano inseparabili e perché la luce sia sempre accompagnata dalla generazione delle acque (lacrime. – Vedi il mio trattato sul lampo come padre della luce). – Una seconda conseguenza naturale di questa legge di ascesa e discesa è che l’uomo caduto e spogliato dei suoi poteri resterebbe eternamente nello stato impotente di radice e, non potendo innalzarsi ai propri poteri, non potrebbe quindi nemmeno pregare mai efficacemente il suo Dio (ovvero innalzarsi a Lui), se non fosse un Uomo-Dio a donargli i propri poteri per fare tutto ciò. Per questo la Bibbia dice che l’uomo non può pregare Dio se non nel nome di Cristo.
(8) La dimostrazione dell’esistenza di un Dio sarebbe cosa assai più facile, se tanti uomini non provassero con quasi tutti i loro atti il contrario, ovvero l’esistenza di Satana!
(9) Il sole si dona alla pianta e la comunica – le dà l’eucaristia. La pianta, ricevendo la sua luce (e al contempo credendovi) la sostanzia, e il potere solare, unendosi al potere terrestre, riascende insieme ad esso: tanto che si può dire che la pianta stessa è metà solare, metà terrestre, e che in essa e tramite essa la terra è diventata solare, così come il sole è diventato terrestre. La pianta dunque corporizza e rende sensibile il potere del sole (chiamato giustamente dai saggi la “parola fisica”), così come ogni cristiano, divenendo membro del Corpo di Cristo e lasciando (come dice la Bibbia) che Cristo assuma la natura in lui, corporizza e rende sensibile il suo potere, e tale corporizzazione e sensibilizzazione si produce in modo molto più reale nella physis primitiva che in questa physis passiva e secondaria. Gli innovatori, perdendo la nozione di questa physis superiore e primitiva e confondendola con la physis inferiore, non riescono a capire più nulla nella dottrina delle istituzioni religiose, ovvero dei sacramenti come base delle azioni superiori: abbiamo visto questa dottrina smarrirsi o in un materialismo grossolano, o in uno spiritualismo evanescente e privo di potere. Per questo si può dire a ragione che sia il materialismo, sia lo spiritualismo dei moderni (tanto dei moralisti, quanto dei pietisti), sono il frutto dell’oblio del vero naturalismo.
(10) Avremmo dunque il diritto di diffidare di una dottrina religiosa che giudichi la scelta tra le materie del sacrificio cosa assolutamente superflua, o perché tutte le sostanze naturali andrebbero ugualmente bene, o perché l’uomo potrebbe fare a meno di tutte.
(11) Sembra certo, infatti, che i primi cristiani osservassero durante o dopo tutti i loro pasti questo precetto del Signore, e che solo più tardi, quando già si cominciò a trattare la religione come una faccenda separata, le agapi furono istituite come pasti separati. S. Paolo dice: Ogni volta che bevete e ogni volta che mangiate il pane, ecc.
(12) Il principio o la qualità che l’uomo vuole suscitare o sviluppare in una qualsiasi sostanza al di fuori di lui, dev’essere precedentemente sviluppato in lui stesso. È questa la vera alchimia o arte di estrarre l’oro (la sostanza celeste, ovvero questa physis attiva e superiore) dalle sostanze terrestri. Sarà dunque l’uomo-spirito (rigenerato o veramente vivente) che pronuncerà in modo efficace le parole di consacrazione: perché ogni uomo rigenerato (o in cui il Cristo ha assunto la natura) è sacerdote, e il sacerdote è tale solo nella misura in cui è rigenerato, almeno nell’ambito in cui vuole svolgere la sua funzione; infatti si può dare a un altro solo ciò che si ha, e si ha solo ciò che si è. Del resto il Cristo non è stato il primo a istituire il pane e il vino come materie del sacrificio: queste due sostanze lo erano già al tempo di Melchisedech, o sin dall’inizio di questo ordine esteriore; senza dubbio perché più delle altre sostanze hanno conservato la loro purezza primitiva nella caduta generale, e il Cristo, ponendo fine ai sacrifici di sangue, ha ripristinato il sacrificio di Melchisedech.
(13) Per chi ha avuto l’occasione di informarsi sui fenomeni del sonnambulismo magnetico, un fatto ben documentato servirà a chiarire l’idea che dobbiamo farci del sacramento in generale. Si tratta del fenomeno per cui il magnetizzatore può trasferire la sua forza personale, incorporarla in una data materia (ad esempio un pezzo di vetro), e attraverso questa sostanza il rapporto fra il magnetizzatore assente e la persona magnetizzata si rinnova e si mantiene. È dunque così difficile credere che il Cristo ci abbia messo a disposizione, dopo la sua dipartita terrestre, delle sostanze particolari per rinnovare e mantenere un rapporto reale con lui, e tale da farsi sentire all’uomo intero, non a una sola delle sue facoltà? Sembra proprio, infatti, che il vero culto di Cristo sia solo quello che non lascia alcuna delle tre facoltà dell’uomo priva di Lui. – Devo ancora rilevare, per quanti hanno l’intelletto aperto a simili verità, che nella Santa Cena, ovvero in questa nutrizione e crescita segreta dell’uomo nuovo, attraverso l’unione dello Sposo e della Sposa (Ef 5,32: del sole e della terra), poiché non si tratta più della propagazione di individui mortali, le due funzioni organiche (quella della perpetuazione dell’individuo e quella della perpetuazione della specie) devono coincidere in una sola e identica funzione. – Infine, se chiamiamo il principio veramente produttore in ciascuna regione dell’essere col nome di padre di quella regione, è chiaro che il padre non può manifestarsi pienamente e perfettamente a meno che gli esseri di tale regione non formino un tutt’uno. Ad esempio, il principio produttore di questo ordine inferiore [il mondo caduto] si manifesta solo attraverso l’integrazione del maschio e della femmina, che diventano un corpo solo; ma s. Paolo ci dice (Ef 5,31-32) che la manifestazione del Padre nell’ordine superiore [il mondo redento] segue la stessa legge, e affinché tale manifestazione si realizzi in modo perfetto, il Cristo e la sua Chiesa devono similmente formare un tutt’uno. Se dunque ricordiamo che il Cristo, sebbene la Bibbia lo chiami il Secondo Adamo, è però, e in un senso più alto (secondo la Bibbia stessa), l’Uomo Primitivo (perché, come dice s. Paolo, è in lui e per lui, in quanto immagine increata del Padre, che siamo stati preconosciuti e creati), si comprende che tutti gli uomini avrebbero dovuto porsi nei confronti di Cristo come la sposa nei confronti del suo sposo. La separazione dei sessi nell’uomo (che avvenne attraverso la sua sostanziazione in questo mondo inferiore e in fondo fu una separazione della matrice, e la sostituzione di una matrice di ordine inferiore a quella di ordine superiore, divenuta sterile), ovvero l’apparizione di un altro sposo, va dunque attribuita all’adulterio primitivo dell’uomo, ovvero alla sua separazione dall’immagine increata del Padre, che è il Cristo, così come la Bibbia dice che con il suo ritorno perfetto al Cristo, ovvero con la restaurazione perfetta di questa immagine nell’uomo, la separazione dei sessi scomparirà. Infatti la manifestazione immediata di tale immagine increata in una creatura la innalza al di sopra della regione dei padri e della madri visibili, ovvero la regione in cui quella manifestazione avviene solo in modo mediato (Mt 22,30). Da questo punto di vista la donna acquista una dignità assai maggiore di quella che ordinariamente gli uomini vogliono concederle, e si può dire di lei: abusus optimi pessimus. Così, se la donna ci ha perduti, la salvezza poteva esserci donata solo attraverso di lei: ed EVA al contrario si legge AVE.