Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 26 marzo 2014

La vendetta come realtà antinomica



Se un'azione riconoscibile come intenzionalmente maligna ottiene il suo effetto, ovvero genera uno squilibrio in chi la patisce, la meccanica delle passioni esige che sia compiuto un atto simmetrico riequilibrante. Tale reazione sarà anzitutto simbolica, come è simbolica l'azione che occasiona lo squilibrio. In questo senso originario ed elementare, vendetta e giustizia si confondono, esprimono la necessità di pareggiare la bilancia, di richiudere una ferita, una lacerazione aperta nel tessuto vivente dei rapporti comunitari, oppure nel corpo sottile individuale, nella pace e nella neutralità di un'esistenza. Di fatto la vendetta arcaica, come l'uomo arcaico, non scevera nitidamente fra l'individuo e il gruppo, la comunità di sangue in cui è immerso: il mio sangue è stato alterato dal contagio maligno di un altro sangue, vendetta sarà l'azione simmetrica o ancor meglio compensatrice per eccesso. La Bibbia pone all'alba della storia umana il canto di Lamekh, che ripagherà una ferita o un maleficio con un'uccisione. Caino, il primo omicida, il primo esule, fondatore della prima città, sarà vendicato sette volte: Lamekh settanta volte sette (la misura che, con la stessa logica simmetrica, Gesù imporrà a Pietro per il perdono).
Vendicare deriva probabilmente da venum dicare, indicare o fissare un prezzo: la passione individuale chiede il prezzo del sangue versato, del dominio sul corpo dell'offensore, la comunità pacifica tende a porsi come intermediario, collocando l'impersonalità divina della legge, del logos, tra la passione dell'offeso e la passione dell'offensore. La mediazione assume, sin dall'antichità, la forma del denaro: si paga una multa, un riscatto, l'amuleto metallico trasferisce su di sé il valore simbolico del sangue. Bloy dice che il denaro è il sangue del povero, di Gesù: quando paghiamo le tasse diciamo di aver versato il nostro sangue, perché il denaro è il corrispettivo di una proprietà, di un lavoro, dunque di qualcosa che è intrecciato con il nostro corpo, che fa parte della nostra carne. Ma per le offese più gravi, come l'omicidio, di solito il denaro non basta: la logica simbolica, magica, sacrificale, chiede una simmetria visibile, uno spettacolo sanguinoso.
Nemesis, colei che sorveglia la bilancia cosmica della giustizia, è vendicatrice. Ogni nostro atto proietta conseguenze sottili e grossolane, ogni istante è un incrocio karmico, un crocevia di destino: tessiamo la sorte futura rimettendo in scena, per lo più come marionette, la sorte dei nostri avi, che occulti ci scorrono nell'occulto sangue. Karma significa semplicemente atto: se è compiuto in modo passionale e dunque passivo, come sfogo di un desiderio, di un attaccamento o di una repulsione, rafforza l'ego, individuale e collettivo, e ciò che nella sua esecuzione resta inconscio ritornerà all'esecutore dall'esterno, come ritorsione divina, come destino duro, refrattario, ineluttabile. La Bhagavad-Gita insegna che se compiamo l'atto secondo la logica della celebrazione sacrificale, ovvero non come individui passionali, marionette del fato, il karma si consuma nel fuoco dell'attenzione saggia, siamo liberi dai fili che ci manovrano.
La vendetta si compie comunque. A volte l'idea viene espressa con frasi come: la miglior vendetta è il perdono, o l'oblio. Rimettere biblicamente o evangelicamente la vendetta a Dio vuol dire rinunciarvi da un punto di vista individuale: ma così, come osserva Quinzio, la richiesta di giustizia non è negata o smussata, anzi si fa immensamente forte, il desiderio di ritorsione passionale si brucia nel fuoco dell'invocazione apocalittica, l'impotenza della vittima inerme diventa partecipazione al paradosso di Gesù, Agnello Sgozzato che siede come Rex Tremendae Majestatis per giudicare le moltitudini. La misericordia, l'amore per il nemico, il perdono delle offese divinizzano l'uomo: lasciare l'offensore sbilanciato, senza la consueta, per lo più meccanica richiesta di compensazione e di vendetta, può spaesarlo, affrettarne il giudizio definitivo, a volte indurlo alla conversione. Questa sembra, da un punto di vista spirituale, la vendetta perfetta, ovvero la perfetta giustizia: non solo il male è dimenticato dall'offeso, ma l'offensore lo ha scontato tutto in se stesso, ha anticipato il destino, non lo ha atteso dall'esterno, è stato carnefice e redentore di se stesso, in un certo senso.
L'ascesi, ovvero il training filosofico e religioso antico, consigliava di ridurre la reattività alle offese attraverso una indefessa attenzione. Cosa mi ha fatto davvero, quell'uomo? Cosa può farmi, se io non lo voglio? Non è dunque l'offesa un atto magico di suggestione, volto a farmi credere che io potrei perdere l'equilibrio a causa di un evento esterno – e non, invece, di una resa interiore, come di fatto avviene? Così il nemico diventa, secondo la parola ascetica di ogni luogo e tempo, il mio maestro più prezioso. Il prezzo di questa vendetta è l'annientamento dell'offensore, l'epistrofè dell'offesa al cuore dell'offeso e dunque la presa di rifugio nell'interiorità, che considera l'uomo esterno a me e la sua minaccia alla stregua di un sogno. Eppure questa dissoluzione sottilmente brutale dell'offensore in me è il preludio al suo riconoscimento come individualità spirituale autentica, come persona, e non come nucleo egoico di passioni imposte: riconducendo al cuore, al centro invisibile il peccato, posso guardare per la prima volta, faccia a faccia, il peccatore, consapevole di tutti i fili che mi uniscono a lui. La vendetta è dunque l'evento in cui ci leghiamo ad un altro in modo speculare, offuscante e inconsapevole – eppure, proprio per questo, l'occasione per cogliere con uno sguardo di pura attenzione la connivenza profonda tra me e il nemico, la mano che gli porgo accogliendo la sua provocazione. Se il groviglio serpentino diventa per un attimo duello, si illumina in un lampo la possibiltà di utilizzare le armi sottili della volontà e dell'intelligenza per tagliare i fili che i burattinai invisibili muovono al di sopra delle nostre teste surriscaldate.