“Le fu detto [i.
e. a Bilqīs]: ‘Entra nel cortile’. Quando lo vide, pensò fosse una distesa d’acqua
e si scoprì le gambe. Egli [i. e. Sulaymān] disse: ‘In verità è un cortile
lastricato di cristallo’. Ella disse: ‘Mio signore, ho fatto torto a me stessa.
Mi sottometto con Sulaymān a Dio, signore dei mondi’” (Sura delle Formiche, v.
44). L’acqua e il cristallo dell’episodio coranico della regina di Saba, Bilqīs,
corrispondono al serpente e alla corda del Vedanta. Il moto del desiderio, la
conoscenza proiettata dualisticamente all’esterno, ci fa scambiare il perfetto
e l’essere per (e con) il manchevole e il diveniente, il fisso con il volatile.
Makeda-Bilqīs impara da Salomone la viveka, il discernimento, Salomone
impara da lei l’eros come amachanon horpeton, animale ineluttabile:
colei che è nera, ma bella, come la materia dell’alchimia, colei che ha
gambe pelose, dionisiache (come la donna-capra della Pietra lunare di
Landolfi), ha oscurato se stessa/fatto ingiustizia a se stessa [lett. alla propria
anima] e ora si ricongiunge a Dio, principio delle teofanie, insieme a Salomone. Il Cantico dei cantici, dalla tradizione
riferito agli amori tra il figlio di Davide e la regina del regno del sud
(arabo o africano), è una “operazione a due vasi” (G. Kremmerz), un poema di
eros gnostico che fa da prototipo a quelli dei Fedeli d’Amore d’ogni luogo:
apprendistato alla morte del desiderio con oggetto, oltre la quale si risorge
androgini, immortali; rituale di ierogamia ermetica in cui ogni coito è gemito
di nostalgia e ogni distacco un nutrirsi l’uno dell’altro.
Secondo i padri
cristiani orientali, le tre opere di Salomone corrispondono alle tre tappe
dell’itinerario spirituale. I Proverbi (meshalim, parabole,
similitudini) sono il libro della via purgativa, opera al nero, in cui si separa
la luce del cuore dall’identificazione tenebrosa con il corpo. L’Ecclesiaste
(Colui che raccoglie, che raduna l’assemblea) è il libro dell’opera al bianco,
in cui viene fissato il mercurio, addestramento saturnino alla contemplazione
della physis (“fisiologia”), alla conoscenza non-egoica dei logoi
degli esseri (visti nello Specchio della Natura, il mercurio del cuore
imbiancato, incanutito dalla sapienza). Il Cantico dei cantici è il
libro dell’opera al rosso, ignificazione del mercurio, gnosi amorosa, conquista
del corpo di immortalità.
Marcello, il
successore designato di Augusto, muore prima che si stabilisca la pace
dell’impero – la sua prematura scomparsa la benedice. Dante riprende il lamento
di Virgilio per la morte di Beatrice, figura cristica: oportet che la
Dama muoia, che sia assunta in cielo, oltre
la spera che più larga gira, in modo da attirare a sé l’amante, il
pellegrino predestinato. Stefan Georg canta la morte di Maximin quindicenne
come condizione per l’apoteosi che sarà nuovo fondamento dell’impero: e
Steiner, parlando dei giovani caduti della Grande Guerra e del figlioletto di
un discepolo (meravigliosamente dotato) morto in un banale incidente, sente e
rivela che i corpi sottili dei fanciulli scomparsi in verde età continuano ad
operare nel loro piano, causale ed occulto, costituiscono, se il ragazzo era
già in vita una presenza benefica, una sorta di aura protettiva, nutriente,
propizia. Così il Talmud insegna che
i neonati ebrei fatti uccidere da Faraone divennero una riserva di forza immane
per Mosè, rinacquero in Mosè.
L’impero si
fonda sulla morte del puer luminoso. Malkut, la sefirah del Regno, è la Donna che esce dal fianco dell’uomo, dal
suo sacrificio: è il corpo mistico, la Keneseth
o comunità santa, lo Spirito. L’albedo dell’impero, i gigli gettati a
piene mani per il compianto di Marcello, i fiori di cui si circonda Matelda
nell’Eden, manifestazione della viriditas, del rinnovamento della terra
– tutto nasce da una breve e quindi eterna promessa falciata precocemente dal
destino (da Saturno), che resterebbe giardino di Adone, rossa fioritura
impaziente, se non si chiarificasse nel lutto, nel penthos di un amore
disperato.
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